Mattia Adani è un economista e imprenditore, esperto di politiche industriali, sulle quali ha lavorato sia come dirigente generale al Tesoro italiano che come Direttore esecutivo alla Banca interamericana allo sviluppo a Washington che come presidente di una delle associazioni industriali europee, di cui è tuttora Presidente. In questa intervista ci spiega quali sono le condizioni presenti ma anche le previsioni per il futuro delle PMI italiane, che analizza nei loro punti di debolezza, ma anche di forza. Gli interlocutori delle PMI a livello nazionale e internazionale spesso non offrono il supporto necessario, e questo rappresenta un primo problema che soprattutto in Italia deve essere superato considerato il peso delle PMI nell’economia nazionale.



Lei è un profondo conoscitore delle PMI, a partire da quelle italiane. Crede che siano ancora portatrici di vantaggi in un’economia globale?

Le piccole e medie imprese esistono ed esisteranno sempre in un sistema produttivo in quanto svolgono un ruolo diverso e complementare rispetto a quello delle grandi imprese. Laddove le grandi imprese portano efficienza e potenza di fuoco per sostenere grandi innovazioni strutturali, le piccole e medie imprese portano invece inventiva, flessibilità e adattabilità. I due mondi vivono in un equilibrio. Si necessitano a vicenda. È un equilibrio dinamico e fluttuante, in cui l’ottimo dipende dalle condizioni del contesto.



Ci spieghi meglio.

Nei periodi di crisi o incertezza, quando l’adattabilità diventa una virtù cruciale, le PMI spesso si dimostrano più resilienti e capaci di reagire in modo rapido ed efficace rispetto alle grandi imprese.  Ciò ovviamente non vuol dire che tutti avranno successo: ci saranno anzi moltissimi vinti, ma anche molti vincitori. Questo, per esempio, è quello che è successo con la crisi degli ultimi anni, in cui le imprese manifatturiere del nord Italia, e quelle lombarde in particolare, si sono distinte meglio delle omologhe tedesche. D’altro canto, durante periodi di stabilità economica o quando sono necessari investimenti su larga scala per sostenere cambiamenti strutturali significativi – come ora, ad esempio, in relazione alla transizione digitale e all’intelligenza artificiale – le grandi imprese sono meglio posizionate per affrontare tali sfide grazie alla maggiore efficienza e ad una capacità di investimento più robusta. In momenti come questo un sistema troppo sbilanciato sulle PMI mostra i suoi limiti.



Esiste un modello italiano per le PMI e quali sono i loro punti di forza e di debolezza?

Il modello italiano delle PMI è basato sui paradigmi dell’impresa familiare, dei distretti territoriali e di una frammentazione relativamente alta, con imprese mediamente più piccole, ad esempio rispetto a Germania e Stati Uniti. L’impresa familiare porta sicuramente alcuni grandi vantaggi: la connessione con il territorio e una responsabilità sociale che nella maggior parte dei casi va oltre la logica del mero profitto. La famiglia è inoltre un investitore di lungo termine. Tende a rimanere in trincea anche nei momenti duri, sovente fino alla fine, senza scappare – come invece a volte fanno alcuni fondi d’investimento – ai primi segni di tempesta all’orizzonte. La famiglia porta però anche grandi svantaggi. La scarsa volontà di condividere il potere al di fuori della cerchia familiare limita in moltissimi casi la meritocrazia interna, il numero di manager di qualità, e condanna in definitiva l’impresa al nanismo. I passaggi generazionali sono estremamente rischiosi e sovente hanno effetti disastrosi, non solo per la famiglia ma anche per il know-how accumulato dall’impresa che in molti casi viene disperso o distrutto. Quelli che ci riescono sono esempi di grande successo, ma la realtà è che rarissime imprese sopravvivono fino o oltre la terza generazione. Per questo, sebbene esista un approccio italiano alle PMI, non ritengo che si tratti necessariamente di un modello. Il nostro modo di fare impresa, insieme a tantissime luci, presenta anche ombre.

Le PMI italiane sono in crisi? Rischiano di esserlo?

Il nostro sistema delle PMI non è in crisi, sta evolvendo adattandosi al contesto esterno. Nel 2008 nelle principali regioni del nord Italia c’erano circa 250 mila imprese manifatturiere. Ora siamo a circa 180 mila. La produzione industriale nel frattempo è aumentata. Nel silenzio, la nostra struttura manifatturiera si sta concentrando. Non è necessariamente una cattiva notizia.

A livello europeo, quanto le PMI rischiano per via dell’alto livello dei tassi di interesse stabiliti dalla Bce?

Il nucleo duro delle piccole e medie imprese manifatturiere italiane rischia relativamente poco. È infatti generalmente poco indebitato.Questo per ragioni culturali. Il debito, un po’ come in Germania, viene visto come moralmente negativo, una cosa di cui bisogna in un qualche modo vergognarsi. Nei contesti anglosassoni, invece, è più neutralmente visto come uno dei possibili strumenti a disposizione per finanziare sviluppo e crescita. Questo li aiuta nelle fasi di crescita, ma crea anche rischi. Si pensi alla crisi innescata da Lehman Brothers nel 2008. Nel nord Europa la situazione è analoga a quella italiana. Le piccole e medie imprese sono in generale poco indebitate. Le PMI europee sentiranno, e stanno sentendo, l’effetto dei tassi alti della Bce più dal punto di vista della riduzione della domanda e dei consumi, che da quello strettamente finanziario. I tassi alti hanno affossato gli investimenti. Nel lungo termine questo potrebbe portare problemi, anche in relazione alle sfide geopolitiche e quelle legate alla transizione digitale

In generale, le PMI trovano sostegno e ascolto? Cosa si potrebbe fare di più e di meglio?

Le piccole e medie imprese subiscono, sia da noi che nel resto del mondo, quello che negli Stati Uniti viene definito come “lip service”: un grande supporto verbale e retorico, ma scarsa azione concreta e sostegno effettivo. Spesso, il supporto si limita a meccanismi di bando per incentivi economici che richiedono complesse e costose pratiche burocratiche per fruirne. In pratica il supporto che le PMI ricevono si limita a una serie di piccole “mance” economiche. Non è questo quello di cui hanno bisogno. Il costo della burocrazia, come riconosciuto anche dall’Unione europea, colpisce in modo più pesante le PMI rispetto alle grandi imprese. C’è bisogno di un deciso intervento di semplificazione, il quale non accade perché le istituzioni, quando devono prendere decisioni per le imprese, sentono e ascoltano solo quelle grandi, il cui management, che può permettersi stuoli di consulenti, non vive direttamente sulla propria pelle i costi delle complicazioni burocratiche. Quando si tratta di prendere le decisioni che contano, le porte si chiudono e nella stanza entrano solo i rappresentati delle grandi imprese. La situazione è così sbilanciata che l’unico modo di sanarla sarebbe quello di imporre una sorta di “quote rosa” per le PMI negli organismi decisionali. Un po’ come si sta correttamente facendo per l’equilibrio di genere.

Oggi stiamo assistendo a un cambiamento del mercato in chiave ipertecnologica. Questo che impatto può avere sulle PMI? 

Le piccole e medie imprese possono essere ipertecnologiche. Nella manifattura tantissime stanno già lavorando e implementando soluzioni di machine learning e intelligenza artificiale. Succederà quello che è sempre successo. Molte imprese soccomberanno. Molte altre emergeranno. Il sistema alla fine si adatterà e sopravviverà. Ci saranno vincitori e vinti. Ma è sempre stato così. Questa è la vita delle imprese e di noi imprenditori.

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