Sta prendendo sempre più forma un partito del Mes. Una formazione trasversale che ha il suo asse nel Pd, il partito espressione dell’establishment europeista, il quale tenta di coagulare attorno a sé una serie di altre forze politiche per congelare la situazione italiana e legarla in modo ancor più stretto alle volontà di Bruxelles. Se il partito perno è il Pd, il frontman è Giuseppe Conte spalleggiato dal ministro (ex europarlamentare) Roberto Gualtieri. La coppia non fa passare giorno senza ricordare che la battaglia sul Recovery Fund è stata un successo clamoroso, ma che siccome i soldi europei arriveranno l’anno prossimo occorre un rinforzino finanziario immediato se non altro per pagare altri mesi di cassa integrazione ai lavoratori. Dove prendere questi denari? Ma naturalmente dalla generosa cassa comune del Mes. I due non ricordano che questi fondi sono legati a finalità di spesa ben precise e soggetti a condizioni capestro, ma tant’è: il messaggio viene ripetuto come un tam tam finché entra nella testa della gente. La risalita del gradimento del governo registrata dai sondaggisti ne è la conferma.
Perché è così importante attingere al pozzo del Mes? La risposta sta proprio nei vincoli ai quali l’Italia dovrà sottostare nel presente e soprattutto nel futuro. Poiché noi non siamo in grado di riformarci da soli – è il ragionamento di queste élite – lo faremo in virtù di pressioni esterne. È lo stesso schema che ha portato ad aderire alla moneta unica: un intento regolatorio e allo stesso tempo un giogo per chi verrà dopo, si chiami governo europeista oppure sovranista. L’operazione richiede un certo tempo e altrettanta perizia, il che spiega la palude in cui si dibatte l’esecutivo attuale dove scarseggiano le personalità dotate di carisma in grado di impugnare la situazione.
Non resta dunque che prendere tempo, prolungare lo stato di emergenza, mantenere vivo il timore del contagio autunnale, minacciare anche il rinvio di elezioni locali che potrebbero essere fatali per la maggioranza giallorossa, digerire le reciproche antipatie che serpeggiano nella compagine dei ministri e sorvolare su tutto il resto. Per esempio, sui dati dell’economia reale. Secondo Unimpresa, il 40 per cento delle piccole e medie aziende italiane rischia la chiusura a ottobre. E qui non è colpa dell’Europa che traccheggia nel bonificarci quanto dovuto, ma la responsabilità ricade su un governo lento e pasticcione che ha varato tre decreti economici senza dare loro effettiva applicazione, visto che mancano ancora i decreti attuativi. “Misure tardive, insufficienti e in parte non concretizzabili”, protestano le imprese che costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana.
Su questo il governo tace perché la “narrazione” si concentra sul braccio di ferro con l’Europa. Ma dai radar di Palazzo Chigi, oltre all’agonia di tanti piccoli imprenditori, è scomparso anche il più ampio scenario internazionale. Nessun ministro ha battuto un colpo dopo quella che appare come una dichiarazione di guerra. Una guerra tra Stati Uniti e Cina che è commerciale e non guerreggiata; una guerra fredda finché si vuole, ma sempre tale. L’altro giorno, dopo avere chiuso il consolato cinese a Houston in quanto trasformato in una “centrale di spionaggio”, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha fatto appello al “mondo libero” perché resista alla “nuova tirannia” di Pechino.
Un episodio molto grave che i mercati finanziari hanno registrato con un calo generalizzato e che prelude a ritorsioni o nuove sanzioni. E l’Italia che dice, di fronte a questi scenari che rischiano di compromettere la stabilità internazionale e la ripresa delle economie, soprattutto quelle più fragili come la nostra? Nulla. Silenzio. D’altronde, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non perde occasione per lodare il regime cinese. Da che parte sta l’Italia, con Washington o Pechino? Mistero: i ministri sono troppo impegnati a questionare con Bruxelles per occuparsi di faccenduole del genere.