Ieri il Financial Times ha dedicato quasi tutta la seconda pagina a un reportage sull’industria italiana; il titolo, “Le fabbriche tradizionali dell’Italia combattono per la sopravvivenza”, introduce il lettore in un viaggio nel distretto industriale di Fabriano tra settori, come quello del “bianco”, che si avviano alla scomparsa e altri, come quello della carta, che lottano per la sopravvivenza.
Il contesto internazionale non aiuta, la domanda è debole, la competizione è globale e da ultimo si è aggiunta la volontà degli Stati Uniti di riequilibrare i commerci globali introducendo dazi. In queste condizioni il problema della bassa competitività delle imprese italiane rischia di non lasciare scampo.
Il primo problema, dopo la crisi iniziata con l’invasione della Russia in Ucraina e le sanzioni al gas di Mosca, è la bolletta energetica. Di questo il Financial Times non si occupa, ma le statistiche sui prezzi dell’elettricità in Europa sono facili da reperire e sono sicuramente note al lettore del quotidiano finanziario. È altrettanto noto che Roma non ha lo spazio fiscale di Berlino e che dieci anni fa, in ossequio alle politiche economiche europee, l’Italia ha pagato con una crisi che ha devastato salari e domanda interna.
In un contesto di domanda debole e di incertezza a ogni livello, le imprese reagiscono tagliando gli investimenti non necessari e riducendo i costi per mettersi nelle condizioni di poter navigare in qualsiasi condizione. Le fabbriche meno competitive diventano il primo obiettivo. Questo è con ogni probabilità la prospettiva con cui i lettori del Financial Times inquadrano il reportage “dal campo” sull’industria italiana.
L’Italia non solo non ha lo spazio fiscale tedesco, Paese “compagno” nella crisi energetica, ma nemmeno il nucleare francese o quel mix unico di nucleare e rinnovabili di cui gode la Spagna. L’Europa è il soggetto debole nel quadro globale e l’Italia è il soggetto debole dentro l’Unione.
Questi sono i dati fattuali e il buon senso, oltre che l’istinto di sopravvivenza, dovrebbe suscitare alcune riflessioni. In particolare, il sistema italiano si dovrebbe chiedere se è in grado di sostenere le stesse posizioni degli altri in tema di guerre commerciali e se è in grado di permettersi i costi della transizione che sono estremamente pervasivi e spaziano dagli incentivi, alle necessità di aggiornare la rete, ai costi imposti alle famiglie su case, impianti e automobili. Se l’Italia segue gli altri, in Europa, su un percorso percepito come “obbligato”, il tema che si apre immediatamente è quello della condivisione dei costi all’interno dell’Unione.
Il giorno prima del reportage il quotidiano pubblicava un altro articolo sull’industria italiana, un argomento evidentemente degno di interesse. In questo caso il tema era la speranza italiana di beneficiare degli investimenti in difesa decisi dal Governo tedesco. Questa è una novità che rischia di suscitare un’attrattiva irresistibile nella misura in cui, in un contesto complicato, promette soldi sicuri, pubblici e ordini in cui non è necessario lavorare sui centesimi.
Quale sia il mondo in cui parte del sistema industriale italiano, quello che può, si converte all’industria degli armamenti e il resto muore è un argomento su cui varrebbe la pena discutere e non solo per la qualità della vita delle famiglie. Forse sarebbe meglio affrontare temi apparentemente più spinosi, il ruolo dell’Italia nella guerra commerciale e il dogma della transizione energetica, subito piuttosto che trovarsi poi a fare i conti con una riconversione con cui bisognerà fare i conti per decenni.
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