La buona notizia l’ha annunciata ieri Ignazio Visco. Intervenendo a Parma all’annuale appuntamento del Forex, il governatore della Banca d’Italia ha corretto le precedenti previsioni sul debito pubblico in rapporto al Pil: sarà del 150% e non del 160% come ipotizzato dalla stessa banca centrale. È tutto merito del prodotto lordo che, dopo il boom dello scorso anno, rallenta, ma continua a crescere più della media europea. Un’altra buona notizia.
Quella cattiva è che a questa discesa del fatidico indicatore contribuisce in modo significativo un aumento dell’inflazione anch’esso superiore al previsto. “È una tassa occulta”, ha ricordato Visco, particolarmente iniqua perché colpisce i ceti sociali meno protetti, chi non è in grado di far crescere i propri redditi in linea con i prezzi e chi non può scaricare l’inflazione sui consumatori finali. Ma a essere penalizzati saranno in generale anche i risparmiatori: la grande risorsa che gli italiani tengono in banca, in titoli di Stato o “sotto il materasso” come si suol dire, verrà tagliata, a meno che un aumento dei rendimenti sui titoli non consenta di mitigare almeno in parte l’impatto del deflatore del Pil. Un rompicapo.
L’equazione del 2022 ha troppe incognite e per di più contraddittorie, rischia di essere irrisolvibile. Il secondo anno del Governo Draghi che s’inaugura proprio oggi parte dunque carico di incertezze: economiche, sociali, sanitarie (la pandemia regredisce, ma non è finita) e politiche.
Il presidente del Consiglio nella conferenza stampa di venerdì scorso ha evitato il trappolone: non “scenderà” nell’arena della politique politicienne, non farà il federatore di nessuna alleanza, tanto meno lancerà un proprio partito. Molti hanno salutato con sollievo queste dichiarazioni nette e solenni. Tuttavia la sindrome di Mario Monti non è scomparsa del tutto. Quando Giovanni Toti e altri suoi compagni di strada parlano di “agenda Draghi”, di un Grande Centro che abbia Super Mario come nume ispiratore, gli danno volente o nolente un abbraccio increscioso e controproducente a mano a mano che si avvicinano le elezioni. Sarebbe un disastro se il programma e la prassi di governo in quest’anno cruciale venissero retrocessi a manovra di impianto “centrista”, anziché essere la seconda tappa del risanamento e del rilancio che trova nel Pnrr il suo punto di caduta.
“Attenti allo spread”, ha detto ieri Visco ricordando che dobbiamo pur sempre collocare ogni anno titoli pubblici per 400 miliardi di euro e la Bce non sarà più l’acquirente principale come è avvenuto nell’ultimo decennio. Tutti rischi dei quali Draghi è consapevole e che non sarà facile schivare. Lo dimostra lo stesso bilancio del primo anno di governo.
Se vogliamo dare uno sguardo retrospettivo, dobbiamo dividere i dodici mesi che ci sono alle spalle in tre parti. La prima arriva fino all’estate e ha mostrato urbi et orbi, potremmo dire, una partenza a razzo, alimentata da una forte volontà e capacità di fare, sostenuta da tutti, anche di chi ha ingoiato con amarezza scelte necessarie, ma non corrispondenti con la linea e la propaganda politica dei singoli partiti (o meglio dei loro leader). Il Pnrr da un lato e la ripresa produttiva dall’altro stanno lì a testimoniarlo.
La seconda parte coincide con la legge finanziaria ed è segnata dalle pretese dei partiti alle quali Draghi ha risposto rinviando spesso le questioni più spinose. La terza è culminata nel pasticcio del Quirinale. Il Mattarella bis è un compromesso figlio di una pericolosa debolezza dei partiti, della politica, delle stesse istituzioni. Adesso occorre un cambio di passo. La riforma della magistratura presentata dalla ministra Marta Cartabia è un segnale di speranza al quale si contrappongono, però, avvisaglie che vanno in senso contrario.
Il rischio, evidente già in autunno, viene dal ritorno in campo delle “bandierine”, come le aveva definite Draghi. Emblematica è la vicenda del superbonus del 110% riproposto anche se il presidente del Consiglio era ed è contrario. Adesso scoppia lo scandalo della sua mala gestione, ma il Movimento 5 Stelle continua ad agitare la propria insegna nonostante tutto. Dall’altra parte c’è la bandierina della concorrenza che, purtroppo, viene regredita all’annosa querelle sulle spiagge a buon mercato e sulle assegnazioni clientelari. L’Italia è un Paese dove la cultura del monopolio e della conservazione prevale su quella della concorrenza e dell’innovazione, un prezzo altissimo che viene pagato dai giovani. Si piange sulla disoccupazione giovanile e sulla fuga dei cervelli, poi si combatte senza tregua in difesa dello status quo. Qui è soprattutto la destra a lanciare la guerra dei bagni a mare. Ma ognuno ha da difendere “lo suo particulare”.
Prendiamo i sindacati. Di fronte all’inflazione che colpisce di più chi è meno protetto, il segretario della Cgil Maurizio Landini propone di rivedere al rialzo gli aumenti contrattuali, scegliendo così chi un contratto ce l’ha già. Intendiamoci, in Italia esiste da tempo un problema salariale, le retribuzioni sono troppo basse rispetto ai principali Paesi dell’area euro, ma la soluzione non sta nel rincorrere i prezzi, rilanciando così l’inflazione, come ai tempi bui della scala mobile. Nemmeno gli imprenditori sono senza colpa: sotto tensione soprattutto per l’impennata dei costi energetici, propongono la strada più semplice e pericolosa, quella di rialzare i prezzi. Una ricetta che nelle costruzioni mette in crisi gli appalti pubblici e fa saltare gli equilibri del Pnrr. Del resto, persino il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini ha parlato di rivedere il piano.
Sono tutte manifestazioni di un malessere vero e diffuso. Non stiamo parlando di manovre speculative senza fondamento, ma se tornasse a prevalere l’Italia del Guicciardini, quella governata dall’interesse personale, gli sforzi, i sacrifici, i lutti di questi due anni non sarebbero serviti a niente.
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