Sabato scorso le forze di difesa israeliane (Idf), al quarto tentativo dal 2006, hanno chiuso la carriera controversa e carismatica di Hassan Nasrallah, terrorista internazionale, segretario generale della milizia sciita libanese Hezbollah. La sua leadership sul “Partito di Dio”, rilevante anche nel panorama mediorientale, durava da 32 anni. Nell’azione un attacco aereo ha demolito sei condomini nella zona sud di Beirut. Insieme al capo è perita anche buona parte di quello che restava della catena di comando di Hezbollah. Senza dubbio il risultato è stato ottenuto grazie ad un’evoluzione della tattica di intelligence che dopo anni passati a difendere, dopo il 7 Ottobre, dopo le operazioni a Gaza, 50mila morti che pesano molto sugli equilibri politici e sulle opinioni pubbliche, e centinaia di civili morti in Libano, ha cominciato ad attaccare imprimendo un’accelerazione strategica.



La catena impressionante di omicidi, dal 30 luglio ad oggi, effettuati tra i nemici di Israele inoltre ci fa capire che informazioni che noi non conosciamo hanno imposto allo Stato ebraico non solo la rivelazione di una capacità che nessuno immaginava a questo livello, ma anche una mobilitazione e una serie di rischi strategici che non si vedeva dalla guerra dei Sei giorni, quando nel 1967 Egitto, Siria e Giordania, alleandosi, cercarono di annientare Israele.



Va detto che in questi giorni in Medio oriente molti hanno gioito alla morte di Nasrallah. Nello stesso Iran, in Siria, in Iraq, oltre che in Libano, molti lo sottolineano sui social. Come avvenne per Soleimani e Raisi. Hamas ed Hezbollah con le loro ideologie hanno avvelenato la vita di intere generazioni in Medio oriente e nel mondo.

Dopo l’assassinio, la propaganda sciita ha affermato che “morto un martire ne nascerà un altro”, ma in un’organizzazione teocratica, come Hezbollah, non è semplice sostituire il capo. Specialmente ora che la milizia è in ginocchio per i colpi subiti, con le altre fazioni libanesi che cercheranno di semplificare il panorama geopolitico interno estromettendo un concorrente. Soprattutto con la consapevolezza che chiunque può essere colpito dovunque.



Istituzionalmente, inoltre, mentre in un regime più simile al nostro esiste già un vice designato ed una struttura di vertice che subentra nell’esercizio del potere, nel “Partito di Dio” la successione non è nel vocabolario, e la fine cruenta della leadership pone seri dubbi di continuità e resilienza dell’organizzazione. Hezbollah è al tappeto, la sua capacità di deterrenza è azzerata, il suo arsenale non è più puntato alla tempia di Israele.

Questo mette a nudo anche le debolezze dell’Iran, o meglio ne mette in luce i contrasti interni. L’Iran infatti non è una nazione, ma un mosaico di lingue, etnie e religioni tenuto insieme dall’anti-occidentalismo. A Teheran il potere costituito nasce da una rivoluzione borghese verso un regime, oppressivo pari a quello teocratico, sovvertito per la colpa di essere servo dell’Occidente. Nonostante oggi il potere sia formalmente e saldamente in mano all’establishment derivato dalla rivoluzione del 1979, dal 2020 ad oggi possiamo vedere delle crepe che si stanno allargando. Per primo nel 2020 abbiamo assistito alla morte a Baghdad del generale Qassem Soleimani, capo delle Guardie della rivoluzione, uomo fortissimo del regime di Teheran, khomeinista duro e puro. Nel 2023 è toccato all’ultra conservatore presidente Raisi, morto misteriosamente in un incidente aereo che il regime ha frettolosamente addebitato a cause tecniche. Ricordiamo che Raisi era il delfino della guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei e suo successore in pectore. Nel 2022 Raisi aveva represso ferocemente le lunghe e diffuse sommosse seguite all’assassinio della ragazza curda Mahsa Amini. L’avvicendamento alla presidenza con il riformista Masoud Pezeskhian nel 2024 ha un ulteriore valore se vista nell’insieme. Le operazioni acceleravano nel 2024. Il primo aprile, nell’ambasciata iraniana a Baghdad, veniva assassinato con un raid israeliano Mohammad Reza Zahedi, capo dei Pasdaran iraniani, il 31 luglio Ismail Haniyeh, capo di Hamas, alleato prezioso degli ayatollah veniva ucciso a Teheran all’interno di una struttura militare dei Pasdaran. Poi c’è stata la mattanza dei cercapersone e dei walkie talkie esplosi. Sabato, stessa sorte è toccata a Nasrallah, che era forse l’alleato più potente, più fidato e più necessario di Teheran, con un arsenale di tutto rispetto al confine con Israele. Una lunga sequenza di morti violente tutta tra i conservatori del khomeinismo. Una sequenza che ci da un’informazione. La Repubblica islamica si sta indebolendo dall’interno, non tanto per le sanzioni, non tanto per la politica repressiva interna, quanto perché sta soccombendo, verso gli occidentali e di più verso le altre entità islamiche. Che stanno escludendo l’Iran dal panorama internazionale e stanno addirittura cercando una composizione con Israele. Parafrasando, “L’Iran è nudo”: lo capiamo anche dalle dichiarazioni di non belligeranza espresse dopo l’attacco missilistico di stanotte. Un messaggio anche per gli alleati coperti o scoperti della repubblica islamica.

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