Nella settimana delle elezioni francesi e di quelle in Gran Bretagna è rimasto ai margini della cronaca un altro ballottaggio di grande importanza: Masoud Pezeshkian è stato infatti eletto al secondo turno nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Per la prima volta dal 2005 (terminò allora il mandato di Mohammed Khatami) un candidato che può essere considerato riformista e parzialmente distante dalle posizioni più conservatrici ha vinto un’elezione in cui c’è stato un dibattito vero, almeno al secondo turno. Va sempre ricordato che in Iran partecipano alle elezioni solo i candidati “ammessi” dal severo Consiglio dei Guardiani (che in passato vietò proprio a Pezeshkian di candidarsi) e quindi  termini come “riformista” vanno presi in termini relativi, per quanto cioè possano essere adattabili ad una società molto chiusa come quella iraniana. Il fatto che però abbia votato al ballottaggio il 50% degli elettori (rispetto al 40% del primo turno, segno di un evidente disinteresse da parte dell’opinione pubblica) sottolinea come forse qualcosa potrebbe finalmente cambiare e come su Pezeshkian si siano appuntate molte speranze.



La vittoria del nuovo presidente – che era opposto all’ultraconservatore Jalili, per il quale si erano espressi e coalizzati più gruppi conservatori ed i vertici del sistema – può essere letta quindi come l’ormai impossibilità per i capi religiosi di mantenere lo “status quo” in una situazione di vivace malessere tra la popolazione e perfino, forse, l’avvio ad una lenta transizione che potrebbe portare l’Iran su posizioni progressivamente più laiche e rinnovate.



Il voto conferma come – e non da oggi – l’Iran ufficiale e la casta religiosa al potere sia sempre più lontana dalla realtà quotidiana, ma anche che – nonostante il controllo occhiuto e l’arma della repressione impedisca ogni dissenso – è evidente che una trasformazione stia maturando.

Non tutti sono però concordi nel considerare una “novità” imprevista l’elezione di Pezeshkian, proprio perché potrebbe essere interpretato come il male minore per permettere al regime di resistere a sé stesso. Di fatto il potere continuerà infatti ad essere nella mani dei vertici religiosi sciiti rappresentati da Ali Khamenei, che però ha ormai ha superato gli 85 anni ed è in comprensibile declino.



I problemi dell’Iran sia interni che internazionali sono notevoli, stretto dalle sanzioni occidentali e con ingombranti vicini come Russia e Cina, con una situazione economica seria ed un malcontento diffuso, anche se ufficialmente viene come è ovvio minimizzato.

Risultando il più votato sia al primo che al secondo turno, Pezeshkian ha superato indenne la convergenza dei conservatori sull’altro candidato in corsa, Jalili, dimostrando – anche per il netto aumento dei votanti – che larga parte dell’elettorato è scontento delle scelte preferite dall’alto.

Il neoeletto presidente non è nuovo alla politica: già ministro della Salute durante il secondo mandato di Khatami (2001-2005), si era candidato alle elezioni del 2013 per poi ritirarsi. Pezeshkian si ricandidò nel 2021 ma quell’anno venne escluso dal Consiglio dei Guardiani prima dell’inizio della campagna elettorale.

Oltre al desiderio di cambiamento, un insieme di fattori sembra avere contribuito alla vittoria di Pezeshkian. Innanzitutto, hanno giocato un ruolo i contrasti interni tra i conservatori, acuitasi anche a seguito delle elezioni parlamentari di inizio marzo. Al voto è seguita infatti una lotta di potere per l’elezione del presidente del parlamento, mediata poi con l’intervento diretto di Khamenei che ha favorito la rielezione del tecnocrate conservatore Mohammad Bagher Ghalibaf.

La novità delle elezioni presidenziali è stato anche un dibattito acceso e pubblico (è stato trasmesso in tv) tra riformisti e conservatori con scontri vivaci ed impensabili fino a poco tempo fa. D’altronde l’Iran non può permettersi di isolarsi ulteriormente dal mondo sia in chiave di politica estera che interna. Pezeshkian potrebbe riaprire un dialogo con l’Occidente e contemporaneamente favorire investimenti cinesi, indispensabili per il rilancio dell’economia visto che l’Iran – con Nord Corea e Myanmar – è l’unico Paese che praticamente non fa parte di alcuna associazione di commercio internazionale.

Difficili invece le aperture in chiave interna (anche se il neo-presidente si è espresso, per esempio, per un allentamento dell’obbligo alle donne di portare il velo), ma forse è comunque l’avvio di un processo verso un Iran meno confessionale.

 

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