Morto un Raisi se ne fa un altro. Il decesso del presidente iraniano, precipitato mentre si trovava in un elicottero sul quale viaggiava anche il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian, non aprirà una nuova stagione in Iran. Anzi, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, è probabile che al suo posto, nominato direttamente dalla Guida suprema Ali Khamenei o con elezioni che si svolgeranno fra 50 giorni (sono state indette per il 28 giugno), possa arrivare qualcuno più radicale di lui come posizioni. Tra i nomi che circolano ci sono quelli del figlio di Khamenei, Mojtaba, e di Mohammad Ghalibaf, presidente del Parlamento. Ma non sono gli unici.
Il regime è troppo forte e troppo brutale nella repressione dell’opposizione perché la necessità di trovare un nuovo presidente diventi l’occasione per cambiare qualcosa. I rapporti con Israele e Occidente resteranno gli stessi, tanto più ora che il legame con Russia e Cina si è fatto sempre più saldo. Tutto questo nonostante il Paese sia stanco del regime degli ayatollah, come hanno dimostrato le proteste di piazza negli ultimi anni e la percentuale sempre più bassa di elettori che si presentano alle urne (41% nell’ultima occasione). Al voto, d’altra parte, arrivano solo candidati che vengono selezionati dal regime. Sullo sfondo comunque rimane il tema della successione a Khamenei, anziano e malato: Raisi era considerato uno dei possibili successori.
L’Iran ha ordinato un’inchiesta: l’eventualità che l’incidente in cui è morto Raisi sia un attentato è veramente da scartare?
L’evidenza dimostra che è stato un incidente, dovuto al cattivo tempo o a qualche malfunzionamento. In Iran quando un elicottero smette di funzionare tutte le parti ancora buone vengono montate su un altro: trent’anni di sanzioni alla fine si sentono. I mezzi non sono né tra i più moderni né tra i più sicuri. E poi gli israeliani, quando colpiscono, stanno zitti; stavolta hanno detto subito che non hanno fatto niente. Comunque non cambierà nulla, al posto di Raisi non arriverà un filoisraeliano o un filoccidentale, al massimo qualcuno di peggiore.
Come sono i rapporti di forza nelle stanze del potere iraniano? Gli ayatollah, l’ala religiosa, ha ancora il bastone del comando ma non sembra avere lo stesso controllo di prima: questa tragedia può indurre a cambiare qualcosa?
Anche nel regime ci saranno delle fazioni, qualcuno meno triste degli altri per la dipartita di Raisi, però il sistema, con l’aiuto della violenza, delle persecuzioni, sbattendo in galera migliaia di persone, tiene ancora. C’è una forte alleanza pasdaran-clero. Non ci sono crepe, se non nel Paese, ma da un altro punto di vista. Quello della crisi economica, ad esempio, perché le sanzioni sono lente ma colpiscono, anche perché l’Iran il petrolio ce l’ha in montagna, dove è più difficile e dispendioso estrarlo. Le ultime elezioni poi hanno evidenziato una bassissima affluenza alle urne, il 41%: indubbiamente il Paese è stanco del regime, ma il regime reprime con brutalità. L’unica cosa che ci si può aspettare quando ci saranno le elezioni è un ulteriore aumento dell’astensionismo, a meno che non facciano di tutto per costringere la gente ad andare alle urne, puntandole il fucile contro.
Se va bene, insomma, al posto di Raisi avremo un altro Raisi?
Se non uno peggiore. Tutto sommato, quando c’è stata la crisi tra Israele e Iran, chi ha voluto fermare l’escalation, lanciando droni e missili “telefonati” che non hanno fatto male a nessuno, è stato Raisi, non Bibi Netanyahu. In un regime di estremisti sembrava quello più normale, benché dal suo curriculum vitae “colasse sangue”.
Qual è l’obiettivo attuale degli iraniani?
Per ora è quello di riaffermare la loro posizione regionale, dimostrare a Hezbollah, Hamas, Houthi, milizie irachene, che non cambia nulla, che sono sempre protetti dall’Iran. Vogliono proteggere le conquiste geopolitiche di questi anni. Potrebbe esserci uno scontro interno, ma poi forse sceglieranno d’amore e d’accordo un nuovo presidente.
Ma ci sarebbe la possibilità che Khamenei chieda di nominare un successore senza passare dalle urne?
Non siamo in una democrazia, ma in un regime. Fino ad ora hanno fatto elezioni, la maggior parte delle volte guidate, scremando i candidati. Se si opterà per questa soluzione sarà per evitare un’elezione con ancora meno gente che va a votare.
La gente in Iran ha protestato e anche in modo deciso. Per esempio, quando la polizia ha preso di mira le donne che non portavano il velo. Perché un movimento del genere non riesce a mettere in crisi il regime?
In Paesi nella stessa situazione a volte si dà spazio ai democratici perché la polizia capisce che non si può andare avanti così. Ma in questo regime c’è calma piatta sotto questo aspetto. Ci sono stati negli anni 90 presidenti che erano pronti ad accordi con gli USA, ma Bush dopo l’11 settembre inserì l’Iran nell’Asse del male. Quindi c’è stata la grande occasione con il presidente Rouhani e l’accordo sul nucleare iraniano, ma arrivò Trump e cancellò tutto. Insomma, quando ci sono stati dei moderati che erano disposti a dialogare con l’Occidente è stato l’Occidente stesso a dire di no e a rimettere il Paese nelle mani di chi era molto meno disponibile a fare accordi.
Una parte consistente dell’Iran, d’altra parte, non è così fondamentalista, anche come mentalità guarda con interesse all’Occidente.
Lo sciismo è molto più moderato e razionale del sunnismo. Il primo è il riformismo dell’islam, il secondo l’ortodossia. Durante la guerra Iran-Iraq andavo in entrambi i Paesi e non c’era paragone: l’Iraq era un Paese di tagliagole e beduini, a Teheran invece mi portavano dappertutto, c’era un Paese diverso, che ha un passato imperiale. Certo, ora siamo in una situazione in cui il regime è difficile da scardinare. Il Paese è nella sfera di influenza russa, alleato della Cina: non ci sono grandi possibilità di dialogo con l’Occidente. Qualcuno dice che lo stesso Raisi volesse cercare di riallacciare i rapporti, ma non ci sono segnali che lo confermano, se non il comportamento durante la crisi con Israele che ha evitato un allargamento del conflitto in Medio Oriente.
Nei giorni scorsi, però, la stampa israeliana aveva dato conto di voci secondo le quali USA e Iran stavano ricominciando a parlarsi. Possibile che si voglia riprendere il dialogo?
Credo che informalmente abbiano sempre avuto contatti sottotraccia. Ora bisogna vedere cosa accade nella successione a Raisi: se la scelta ricadrà su qualcuno più moderato, allora potrà aprirsi qualche spiraglio. Ma tutto fa credere che in questo momento governi l’ala militarista, gli interventisti, coloro che hanno più ambizioni geopolitiche. Se dovessi fare un’ipotesi c’è più pericolo che scelgano uno più trinariciuto di Raisi, che voglia incrementare il programma nucleare iraniano. Comunque, se cambia qualcosa, cambia all’interno del regime. Non vedo prospettive di dialogo con l’Occidente, di fine dell’isolamento dell’Iran o di mutamento delle alleanze.
Non è possibile neanche un cambiamento interno al Paese, sulla spinta della gente comune?
Per ora no, a meno che a furia di comprimere le libertà alla fine la gente esploda. La repressione è ancora molto dura e il controllo delle piazze è stato molto violento. Il controllo del regime è troppo forte perché possa nascere un’alternativa. Anche l’alleanza tra i religiosi e i pasdaran sembra un patto di ferro.
(Paolo Rossetti)
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