L’orrore della strage nel kibbutz di Kfar Aza, dove i fondamentalisti di Hamas hanno infierito anche su 40 bambini, è l’ennesimo episodio di violenza che si aggiunge alla carneficina del rave party e agli altri massacri compiuti nei villaggi israeliani. Ora sta a Netanyahu, al lavoro per allargare la coalizione di governo, soppesare i pro e i contro di un intervento dentro Gaza, passando dall’assedio alla “offensiva totale”.



Ma se si escludono i fondamentalisti di Hamas, il cui copione è tragicamente noto, è proprio Bibi Netanyahu il collettore politico di tutte le difficoltà israeliane, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione nell’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi. Pur di rimanere al governo, Netanyahu si è messo nelle mani della destra messianica, il cui unico obiettivo, non negoziabile, è prendere possesso della terra.



È a questa stessa destra, quella di Smotrich e Ben-Gvir, che va indirettamente imputata la disfatta del 7 ottobre.

“Porremo fine al controllo di Hamas su Gaza” ha dichiarato l’ambasciatore a Roma Alon Bar. È un’operazione realizzabile?

È qualcosa di molto complicato entrare a Gaza con i tank e i commando, in una sorta di combattimento casa per casa e tra le macerie. Non solo le forze di Tsahal (l’esercito israeliano, nda) sarebbero esposte agli attacchi, cosa che le operazioni aeree escludono, ma il nodo è la sostenibilità politica di questo tipo di intervento. Difficilmente la popolazione civile potrà proteggersi.



Chi innanzitutto non potrebbe accettarlo?

L’intensità della violenza potrebbe essere non sostenibile dai governi dei Paesi della Mezzaluna. Pur non simpatizzando con Hamas rischiano di veder crescere l’ostilità nei loro confronti dell’opinione pubblica, che li taccerebbe di essere complici di Israele. I governi che hanno firmato gli accordi di Abramo riuscirebbero a far digerire la distruzione totale di Gaza?

E forse non parliamo solo di Paesi arabi.

No, infatti. Gli Usa, che pure si sono schierati a fianco di Israele, consentirebbero che la reazione giunga a livelli inauditi, con il rischio di veder saltare gli equilibri fragili che da quegli accordi sono scaturiti? E la Turchia, Paese Nato ma che ha buoni rapporti con Hamas, potrebbe acconsentire senza batter ciglio?

Dunque l’incognita maggiore riguarda le sorti della popolazione.

Sì: come salvaguardare gli abitanti di Gaza in un simile scenario di guerra è il punto essenziale. Parliamo di 2 milioni di persone, concentrate in una zona densamente popolata, che non possono certo essere sfollate nel vicino Egitto. Se quella di Israele fosse percepita non solo come una punizione di Hamas, ma anche della popolazione palestinese della Striscia, pure ostaggio delle strategie dell’organizzazione, lo Stato ebraico vincerebbe militarmente ma non politicamente. È prevedibile che dopo una settimana o più di crisi umanitaria – prodotta, oltre che dalla violenza dei combattimenti, dal blocco delle forniture energetiche e alimentari e dell’acqua –, le pressioni politiche della comunità internazionale diventino molto forti. Questo al di là delle responsabilità nella specifica vicenda.

Hamas aveva messo in conto queste variabili?

Certo: difficile ipotizzare che un attacco come quello di “Al Aqsa Flood” potesse concludersi con gli esiti visti in passato: una reazione israeliana molto dura a attentati o scontri al confine, una tregua con la mediazione di attori locali, appoggiata anche da Usa e governi vicini ad Hamas, la ricostruzione con gli aiuti internazionali gestita dalla stessa organizzazione islamista, il ripristino della deterrenza e della sicurezza di Israele.

Questo significa che l’attacco del 7 ottobre ha cambiato completamente lo scenario.

Sì, e Hamas lo sa. Adesso per Israele è essenziale evitare la ripetizione di simili avvenimenti e per questo non vuole più Hamas ai confini.

Hamas ha obiettivi solo simbolico-politici o anche territoriali?

In questa fase, il suo obiettivo è mostrare al mondo la fragilità di Israele e del governo di Netanyahu. La “Tempesta al Aqsa” non mirava a occupare territori. La sproporzione tra le forze in campo è ancora troppo grande, nonostante la clamorosa débâcle israeliana nella circostanza.

L’obiettivo non può essere quello di guadagnare terreno fino alle propaggini più vicine della Cisgiordania? 

Gli obiettivi erano altri, in questi frangenti. Mostrare non solo ai palestinesi, ma al mondo islamico, arabo e non, che Israele è vulnerabile e che una volta attaccato può subire dure perdite; demolire la residua leadership dell’ANP, paralizzata e senza prospettiva poiché non ha più mete realistiche da indicare ai palestinesi. La formula “due popoli due Stati”, che doveva suggellare il processo di Oslo e l’accordo tra Rabin e Arafat con la mediazione americana, è divenuta poco più che uno slogan in assenza di attori, interni e internazionali, capaci di sostenerla con convinzione. Agli occhi dei giovani della Cisgiordania amministrata dall’ANP, l’anziano e stanco leader Abu Mazen, e con lui il suo entourage, paiono ombre del passato.

Dunque i fondamentalisti hanno conseguito due obiettivi: mettere in gravi difficoltà Israele e umiliare l’ANP. 

Esatto. Ce n’è anche un terzo: minare l’accordo tra Arabia e Israele, che avrebbe definitivamente relegato nell’insignificanza la questione palestinese, già finita nel dimenticatoio negli ultimi anni.

Il ruolo del Qatar come finanziatore di Hamas è noto. L’Iran è da sempre pro Hamas, anche se il suo ruolo in questa occasione non ha ancora contorni certi. Ma l’Arabia Saudita? Ha o no supportato Hamas

Per ragioni religiose e politiche, i sauditi hanno tagliato da tempo i loro rapporti con i gruppi di filiera dei Fratelli Musulmani, come Hamas, propaggine palestinese della Fratellanza in versione islamo-nazionalista. Non così il Qatar. Solitamente, Qatar e Arabia Saudita, rivali per l’egemonia nel Golfo, non condividono alleanze di questo tipo. Anche se non è escluso che i settori più ostili alle scelte della fazione dominante dei Saud mandino a Gaza aiuti attraverso fondazioni caritatevoli.

Sui giornali si legge che Bin Salman andrà avanti sugli accordi. Secondo lei?

Certo, le sue intenzioni sono queste, ma non è una strada senza ostacoli. Procedere in quella direzione, stabilire relazioni pubbliche con Israele mentre è in corso un conflitto di simile portata, comporterebbe un costo interno molto elevato per lui: tutta l’ala della famiglia reale e i religiosi che in passato hanno appoggiato spinte fondamentaliste non sono certo favorevoli agli accordi di Abramo.

Perché l’attacco di Hamas è stato chiamato “Alluvione al Aqsa”?

Gerusalemme è per i musulmani il terzo luogo santo dell’islam e la moschea di al Aqsa sorge, secondo la credenza, nel luogo dell’ascensione al cielo del Profeta. Un pezzo di destra nazional-religiosa, quella che si riconosce nel partito di Ben-Gvir, Otzma Yehudit (Potere ebraico) o il Partito sionista religioso di Bezalel Smotrich, intende riportare alcuni luoghi biblici sotto il controllo ebraico. Per farlo prospettano l’annessione di parte dei territori, in particolare quelli dove sorgono gli insediamenti dei coloni, divenuti negli ultimi decenni sempre più grandi. Territori che, secondo le intese di Oslo, spetterebbero ai palestinesi.

Ci può spiegare questo aspetto teologico-politico?

I coloni messianici ritengono che quando Israele coinciderà con l’Israele biblica, allora sarà possibile far “risalire” tutti gli ebrei in quella terra: si determineranno, così, le condizioni per l’avvento della Redenzione. Prendere possesso della terra, occuparla, ha in questa prospettiva una finalità messianica. Come si può comprendere, si tratta di una questione non negoziabile per simili attori politici e religiosi.

E lo stesso vale per Hamas.

Precisamente. All’opposto, Hamas ritiene che Israele non debba esistere, che l’intera Palestina sia stata consegnata ai musulmani da Dio. Anche questa è una posizione che ha motivazioni religiose non negoziabili. Posizioni che hanno grande peso nel campo israeliano e in quello palestinese e rendono difficile un compromesso.

È questa la scelta più grave che si può imputare a Netanyahu?

Netanyahu, pur di rimanere al governo, ha fatto un accordo con questo tipo di destra, che in talune sue propaggini ha persino influenze kahaniste. In passato il partito del rabbino Meir David Kahane fu messo fuori legge da Israele con l’accusa di razzismo verso gli arabi israeliani di cui teorizzava la deportazione. Formare un governo con forze che hanno credenze religiose e ideologiche radicali, oltretutto decisive per la sopravvivenza dell’esecutivo, espone a fughe in avanti e conflitti che possono essere devastanti.

Perché l’intelligence israeliana, Shin Bet, Aman e Mossad, il 7 ottobre ha fallito?

Il 7 ottobre la frontiera con Gaza era sguarnita di forze militari, affidata solo al controllo tecnologico. Il governo aveva spostato 26 battaglioni in Cisgiordania per tutelare le colonie che sorgono nei territori palestinesi causando infinite tensioni con la popolazione locale. Decisione che si spiega soltanto con la necessità di rispondere alle richieste della destra messianica, a scapito delle esigenze di sicurezza dello Stato.

Lei ha detto che la soluzione “due popoli due Stati” è l’unica che potrebbe essere risolutiva. L’attacco di Hamas la allontana una volta per tutte?

Diventa davvero complicato, ora, riprendere a negoziare da quella posizione: la questione andava affrontata prima. La comunità internazionale, Stati Uniti compresi, ha lasciato che il problema divenisse un bubbone incontrollabile. Rabin, non a caso ucciso da un esponente della destra messianica a causa delle sue posizioni trattativiste, aveva compreso che quella era la via. Dopo il suo tragico assassino politico, si doveva fare in modo di rafforzare l’ANP a scapito di Hamas. L’immobilismo ha sortito l’effetto contrario.

La soluzione opposta a “due popoli due Stati”, nella sua coerenza, è lo Stato unico israeliano. Se fosse questo l’obiettivo tacito di Netanyahu?

È l’ipotesi della destra messianica, ma sarebbe un boomerang. Anche se l’ipotesi non trovasse ostacoli internazionali e fosse realizzabile, nell’arco di qualche generazione gli ebrei sarebbero in minoranza, superati numericamente dagli arabi, il cui tasso di natalità è superiore. Lo Stato ebraico non sarebbe più tale per un fattore demografico.

Altre soluzioni?

La tentazione di Netanyahu è tornare allo status quo ante 7 ottobre senza Hamas, soluzione che consentirebbe a Israele di non scegliere. Lasciare i palestinesi senza Stato e Gaza senza la Fratellanza chiuderebbe il cerchio. Per questo punta a distruggere l’organizzazione islamista.

Hezbollah potrebbe decidersi ad intervenire?

Hezbollah non si muoverà senza il consenso dell’Iran. Non è Hamas e segue una logica di governo: nonostante il ridimensionamento subìto alle ultime elezioni, il Libano è ancora sotto la sua influenza. Sostenere apertamente Hamas vorrebbe dire scontrarsi con Israele. Con il rischio di perdere lo stesso Libano, già in grave crisi economica. Come si vede, è una partita complessa che non si gioca solo a Gaza. Anche se molto dipenderà dall’andamento della guerra nella Striscia e dall’eco che avrà nel mondo islamico.

Il conflitto è stato rapidamente simbolizzato: attacco delle autocrazie all’Occidente. È una lettura corretta?

È una chiave di lettura non centrata. Israele è certo l’unica democrazia del Medio oriente, ma  prima dell’attacco di Hamas stava affrontando una crisi interna che vedeva almeno metà del Paese imputare alla coalizione di governo  di stravolgere i caratteri democratici dello Stato ebraico, a causa delle scelte dell’esecutivo Netanyahu sulla giustizia e il bilanciamento dei poteri. Il nodo, dunque, è cosa intende fare Israele con la sua appendice fondamentalista, a cui ha concesso spazio politico troppo ampio.

Un governo di coalizione o di unità nazionale può funzionare? 

Sul fronte guerra sì, perché lo shock ha fatto scattare il riflesso “Right or Wrong, my Country”, ma per appoggiare Netanyahu, Lapid potrebbe esigere che la destra messianica resti fuori. Tocca a Netanyahu decidere che fare.

“Alluvione al Aqsa” può essere la sua fine politica?

A guerra finita dovrà rendere conto all’intero Paese, prima ancora che all’opposizione, di quanto è successo. L’unica possibilità di sopravvivere politicamente è passare come il leader che ha messo definitivamente fuori gioco il nemico di Israele. Da qui la scelta di dare una risposta “senza precedenti” ad Hamas. Bisognerà vedere se riuscirà a giungere sino in fondo, senza che qualcuno, soprattutto dall’esterno, lo richiami all’ordine o lo costringa ad aprire altri fronti.

(Federico Ferraù)

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