Il price cap è rinviato a ottobre, ma a questo punto è lecito dubitare che mai si farà. Anche se sulla carta la maggioranza dei paesi della Ue sono favorevoli, veti, opposizioni, dubbi hanno già fatto perdere tempo e denaro, nonché la pazienza persino a Sergio Mattarella: “Basta resistenze, è una misura urgentissima”, è sbottato venerdì. Ora più che mai occorre una decisione politica non tecnica, dunque è materia per i capi di Stato e di governo. Se ne dovrà occupare il nuovo governo se sarà in carica per il prossimo Consiglio europeo, così come si dovrà occupare dello scostamento di bilancio, cioè fare nuovo deficit, un’altra scelta che divide i partiti italiani, ma è destinata ad avere ripercussioni europee, tanto più perché la bonanza monetaria sta per finire dopo il brusco aumento dei tassi decisi dalla Bce (+0,75% giovedì, poi seguiranno altre due impennate entro dicembre). La decisione era attesa, però Christine Lagarde s’è fatta prendere la mano dalla paura dell’inflazione.



Matteo Salvini insiste per mettere in campo altri 30 miliardi di euro e, paradossalmente, trova disponibile Carlo Calenda, non Giorgia Meloni. Il leader del “terzo polo” non fa numeri, accetta il principio di fronte all’incalzare dell’emergenza energetica e ai ritardi europei. La leader di Fratelli d’Italia che, secondo i sondaggi, s’avvia a diventare il primo partito, sostiene che è inutile stanziare altro denaro: senza un tetto ai prezzi dell’energia non potrebbe recare veri benefici. Anche la Meloni è diventata frugale? Non esattamente, ma si rende conto che se andrà al governo dovrà affrontare una situazione finanziaria da far tremare i polsi. D’altro canto, di sostegni a imprese e famiglie ne sono stati concessi in gran quantità.



Il partito dello scostamento porta ad esempio la Germania che ha deciso di erogare 63 miliardi di euro, ma il governo Draghi solo per compensare il caro energia ne ha già stanziati 50, di cui 30 quest’anno. Non solo. In parlamento sono bloccati i 13 miliardi del decreto aiuti ter per una impuntatura del Movimento 5 Stelle sulla revisione del superbonus facciate. Ci sono ben 400 emendamenti, chissà se uscirà dalle camere prima delle elezioni. Dal suo insediamento nel febbraio dello scorso anno Draghi ha varato dieci provvedimenti con una spesa totale di 160 miliardi, poco meno del 10 per cento del prodotto lordo, prima per la pandemia poi per i rincari di materie prime, soprattutto gas e petrolio. Tutto questo senza peggiorare ulteriormente il disavanzo pubblico rimasto al 5,6% previsto nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Mentre la crescita più forte del previsto ha consentito di portare il debito sul Pil sotto il 150% (si prevede 147% a fine anno).



La prossima settimana, probabilmente entro venerdì, il governo dovrebbe stanziare un altro pacchetto, utilizzando i 6,2 miliardi di euro di maggiori entrate generate questa volta non tanto dalla maggiore crescita, ma dall’inflazione che fa aumentare automaticamente il gettito dell’Iva. Ci vuole l’autorizzazione del parlamento, quindi è meglio incrociare le dita. Nell’insieme il nuovo decreto aiuti dovrebbe ammontare a 12-13 miliardi di euro, ancora una volta senza peggiorare il bilancio. Non è una magia, è frutto della abilità del ministro dell’economia Daniele Franco grande conoscitore della macchina statale: dopo i sei anni trascorsi come ragioniere dello Stato non gli sfugge nessun segreto di una spesa pubblica pari al 50% del Pil. C’è grasso nascosto negli anfratti, da spalmare senza tasse e senza stangate, ma quanto ancora? E qui entriamo nella incognita più grande che attende il nuovo governo.

In uno scenario che vede una crisi energetica destinata a durare tutto l’inverno, un’inflazione forse in discesa, ma in ogni caso molto alta, un costo del denaro più caro, il rischio di una riduzione delle esportazioni a causa non solo della guerra in Ucraina, ma della brusca frenata cinese, l’Italia torna ad essere un vaso di coccio. A prescindere da chi avrà in mano palazzo Chigi. Senza catastrofismi, né complotti o anatemi, parlano i dati. I fondamentali dell’Italia sono migliorati, non sono più quelli di dieci anni fa, ma se l’economia si ferma possono peggiorare molto rapidamente. Abbiamo in circolazione sul mercato 2.300 miliardi di titoli (circa un terzo all’estero), con un rapporto tra interessi e debito del 2,4%. L’aumento dei tassi peggiora il costo del nuovo debito. Non solo: la Bce sta discutendo come e quando cominciare a liberarsi dei titoli di stato comprati in questi anni. Quelli italiani ammontano a 363 miliardi di euro, gli acquisti sono passati dal 17% al 29% del debito tricolore tra il 2019 e il 2022. Nessuno pensa che venga da Francoforte un attacco speculativo all’Italia, ma se comincia il disimpegno il segnale al mercato può diventare dirompente. A quel punto scatterebbe lo scudo anti spread (Tpi), si dice. Lagarde lo ha ricordato anche giovedì. Ma non è senza condizioni. Potranno utilizzarlo solo i Paesi che mostrano conti in ordine, che hanno fatto “i compiti a casa”, come si diceva un tempo. Già parlare di scostamenti fa trillare un campanello, se poi verranno decisi per spendere e spandere suonerebbe davvero l’allarme.

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