Messi così, i numeri fanno spavento: 184 milioni di anni di vita persi dal 2013. La necessità, per avere il saldo nati-morti in pari rispetto ai numeri previsti nel 2053, di aggiungere 506mila nati oppure 802mila immigrati. Una percentuale di donne senza figli passata dall’11% del 1953 al 25% annunciato per le millennials. Il calo demografico, spiegato da una ricerca pubblicata da Il Sole 24 Ore, ci racconta quello che ormai da tempo tutta Italia sa: che con questa percentuale di nascite non c’è futuro.
Eppure, dice Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos, docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma, la stragrande maggioranza dei giovani vuole due figli, anche tre, solo il 9% non ci pensa perché non vuole limitare la sua libertà. Un desiderio che però incontra difficoltà a realizzarsi a causa della precarietà del posto di lavoro, degli stipendi inadeguati, dell’insensibilità delle aziende a considerare i problemi della conciliazione tra famiglia e impiego. Ecco le cifre che raccontano la voglia degli italiani di farsi una famiglia e gli ostacoli che rendono complicata la realizzazione di questo obiettivo.
Gli italiani fanno sempre meno figli, ma le aspettative dei giovani quali sono: vogliono ancora farsi una famiglia?
Il 70% dei giovani millennials e generazione Z, quelli dai 18 ai 34 anni, vorrebbero avere almeno due figli. E la quota di chi non li vuole è del 16%. Quindi la spinta dei giovani ad avere figli è molto alta. Il 22% di quel 70 ne vorrebbe anche tre.
Quali sono allora gli ostacoli che producono la denatalità?
Al primo posto ci sono stipendi bassi e costo della vita, segnalati dal 70% delle persone. Poi c’è l’instabilità lavorativa e la precarizzazione del lavoro (63%), la mancanza di sostegno pubblico alla nascita e crescita dei figli (59%) e la paura di perdere il posto, soprattutto da parte delle donne (56%). Inoltre si pensa che il mondo del lavoro non sia interessato a un equilibrio tra le ore lavorate e quelle dedicate alla famiglia (47%). Questa è la top five delle situazioni che scoraggiano la natalità.
Il tema, insomma, è come le imprese affrontano la maternità e la paternità?
Dalla fotografia sui timori ad avere figli vediamo un mondo delle imprese lontano da un impegno per la costruzione di una esistenza equilibrata delle persone in termini di costi, servizi e attenzione. Il premio Nobel Joseph Stiglitz diceva: “L’economia dovrebbe servire la società, non il contrario”. Occorrono imprese non impegnate solo a fare profitti. Se abbiamo imprese aperte nei weekend, non si può pensare che i dipendenti siano disposti a fare due o tre sabati e domeniche al lavoro senza stare con i figli. Occorre la capacità di consentire una turnazione che garantisca la presenza in famiglia. Se per fare carriera una persona deve rimanere tutti i giorni in ufficio fino alle 19, alle 20 o alle 21, il rapporto con la famiglia diventa secondario. A un’ampia fetta di ragazze che si presentano a un colloquio di lavoro viene ancora chiesto se hanno intenzione di fare figli. Ritengo che questa domanda sia un atto criminale. Fare figli dovrebbe essere sostenuto dalle imprese.
Del calo demografico si parla spesso, ma c’è la consapevolezza che deve essere una priorità?
C’è la consapevolezza formale: riguarda gli altri ma non se stessi e il proprio modo di fare impresa. Un modo di ragionare che conosce delle eccezioni, naturalmente. Il 66% degli under 34, comunque, ritiene urgente il tema della denatalità. Le persone delle fasce di età successive lo sentono ancora di più. Per i baby boomers, gli attuali genitori, la percentuale sale al 74%.
La considerazione delle cause della diminuzione delle nascite cambia secondo la fascia sociale di appartenenza?
Nel ceto popolare i temi dell’instabilità lavorativa (67%), del mondo del lavoro non interessato all’equilibrio famiglia-impiego (52%), della paura di perdere il posto di lavoro (61%) sono più sentiti rispetto al dato generale. Succede perché qui consideriamo persone che spesso fanno lavori malpagati o sottopagati, più ricattabili.
Quali sono le istanze nei confronti della politica?
Mancano i sostegni pubblici non solo in occasione della nascita dei figli, ma della crescita. I figli costano molto di più quando si passa alla fascia adolescenziale, ma lo si dimentica. Non ci sono sostegni neanche per le donne che vogliono fare carriera. Tra le cause della denatalità non c’è l’idea che i figli siano di ostacolo al divertimento. Fra i giovani siamo appena al 26%, la media nazionale è del 30%. Rispetto al passato, in cui fare figli era un processo normale frutto del matrimonio e i figli soprattutto nelle campagne diventavano uno degli strumenti per avere più braccia che lavoravano, oggi il figlio è in primo luogo un atto di amore.
Qual è la motivazione per cui si vuole diventare genitori?
Se ci si chiede qual è l’emozione che genera l’idea di avere un figlio, al primo posto c’è l’amore (68%), al secondo l’ottimismo verso sé stessi e la società (41%). Per il 59% l’emozione di fondo che suscita avere un figlio è ancora la gioia: avere un bambino significa creare un legame affettivo unico e indissolubile (50%), l’orgoglio di crescerlo giorno per giorno (49%), la gioia di dare alla luce una nuova vita (48%). Per il 45% delle persone interpellate è anche un’assunzione di responsabilità.
Sono motivazioni forti. Perché non bastano?
Tutto questo si scontra con una società che crea sempre meno le condizioni per avere figli, mentre si tende a farli quando tutte le condizioni di benessere si realizzano. Quando parliamo di cambiamento culturale in relazione alla paternità e alla maternità dobbiamo tenere conto di questo. Chiedendo ai ragazzi cosa significa avere un figlio, una delle possibilità di risposta era “la perdita della mia libertà e autonomia”, ma è stata scelta solo dal 9%. Non è vero che i giovani non vogliono figli per non perdere la loro libertà. Non fanno figli perché il mondo delle imprese e del lavoro non crea e non offre loro le condizioni di serenità per farli.
(Paolo Rossetti)
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