Le raccomandazioni della Commissione europea all’Italia riguardano essenzialmente due punti: a) attenzione al debito della Pubblica amministrazione che ha raggiunto il 160% del Pil; e) ristrutturare la spesa pubblica dando priorità a quella che guarda al futuro e che può facilitare l’aumento della produttività (ossia la spesa in conto capitale, gli investimenti) e ridurre quella orientata essenzialmente al presente (la spesa di parte corrente).
Sono raccomandazioni che Governo e analisti economici si aspettavano anche in quanto il “rimbalzo” del tasso di crescita – evidenziato, ad esempio, nelle più recenti previsioni del Fondo monetario internazionale – sarà di breve durata se non si curano i problemi di fondo dell’economia italiana con un serio programma di riforme, di cui nel Piano nazionale di ripresa e di resilienza si delineano unicamente i tratti essenziali.
Andando più a fondo, si può argomentare – come fa Alessandro Fontana nel recente saggio “A Hypothesis to Explain Italy’s Economic Divergence: Difficulty in Dealing with Complexity” – che i nodi dell’Italia derivano dalla difficoltà di gestire organizzazioni complesse nel settore tanto pubblico quanto privato e hanno, quindi, determinanti culturali che economia e finanza pubblica non sono in grado di affrontare.
Come ha scritto il compianto Giuseppe Eusepi in uno dei suoi ultimi lavori – “Public Debt: An Illusion of Democratic Political Economy” in collaborazione con Richard E. Wagner della George Mason University -, il concetto stesso di debito della Pubblica amministrazione è difficile da afferrare, e ancor più da trattare. Come insegna Olivier Blanchard, il debito della Pubblica amministrazione può essere considerato “sostenibile” se il tasso di crescita dell’economia reale supera il tasso d’interesse, determinanti che non sono affatto sotto il controllo delle autorità politiche. Inoltre, le misure dirette a contenere il debito della Pubblica amministrazione – come dimostrato da Eusepi e Wagner – si scontrano con un groviglio di interessi, soprattutto perché non è affatto chiaro “chi deve cosa a chi”. Di recente, un bel lavoro di Carlo Cottarelli dell’Università Cattolica ricorda che nel “caso Italia” non basta la crescita a contenere il debito.
La leva, quindi, che resta a Governo e a Parlamento è principalmente quella della finanza pubblica, ossia contenere la spesa di parte corrente e di dare spazio a quella in conto capitale. Gli ostacoli che si frappongono all’incremento dell’investimento pubblico sono state esaminati su questa testata più volte, ad esempio il 31 maggio. La spesa di parte corrente si compone di varie grandi voci. Difficile, e non augurabile, pensare a una riduzione del personale, dopo anni di blocco al turnover: analisi dell’European Institute of Public Administration e di tre importanti università italiane (statale di Milano, Cà Foscari di Venezia e Cesare Alfieri di Firenze) dimostrano che in percentuale alla popolazione, l’Italia ha meno dipendenti pubblici di gran parte dei Paesi Ocse; c’è un’urgente esigenza di rinnovo per fasce di età e professionali e nei prossimi due anni entreranno a tal fine circa 140.000 funzionari e dirigenti nell’impiego pubblico. La pandemia ha evidenziato l’errore di avere per oltre un decennio cercato di “risparmiare” sulla sanità, comparto dove, per diversi anni, dovrà aumentare sia la spesa in conto capitale che quella di parte corrente.
Quando si parla di “risparmi”, alcune parti politiche guardano immediatamente alle pensioni. La pandemia ha abbassato l’aspettativa di vita media degli italiani e portato via molti “pensionati d’oro”. Come documentato nell’ultimo libro di Giuliano Cazzola (“La guerra dei cinquant’anni: storia delle riforme e controriforme del sistema pensionistico”, IBL libri, 2021), la letalità ha colpito soprattutto i pensionati, alleggerendo l’onere a valere sui bilanci degli enti di previdenza, soprattutto quello dell’Inps. Nessuno, neanche il più “populista” animato da maggiore rabbia sociale, vuole sperare in una nuova ondata per risolvere, con la morte degli anziani, il nodo della spesa di parte corrente. Tuttavia, il “risparmio” è di breve e forse medio termine.
Le dinamiche demografiche e del mercato del lavoro si presentano ora molto differenti da quelle che nel 1995, quando venne introdotto il meccanismo contributivo per il calcolo delle spettanze (Ndc- Notional Defined Contributory per utilizzare il lessico internazionale), meccanismo che avrebbe dovuto funzionare come “pilota automatico”. Da un lato, l’invecchiamento della società italiana pare più rapido di quanto preconizzato nel 1995. Da un altro, il mercato del lavoro non è più caratterizzato da impieghi e carriere di lungo periodo, ma, a differenza di quanto stimato nel 1995, frammentato e con impieghi che si alternano a periodi di disoccupazione o di lavoro autonomo.
Eloquenti i dati del centro studi Itinerari Previdenziali: occorre cercare di equiparare le condizioni di coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, e avrebbero un trattamento “contributivo puro”, con quelle dei “retributivi” e dei “misti”. Non solo per un elementare principio di equità (in un sistema “a ripartizione” come l’attuale sono costoro che finanziano i trattamenti dei “retributivi” e dei “misti»), ma anche perché se, come ci si augura, passata la pandemia, riprende la tendenza di una più lunga aspettativa di vita, i “contributivi puri” corrono il rischio di non andare in quiescenza prima dei 71 anni e avere trattamenti inferiori dello stesso “assegno sociale” (oggi di circa 520 euro al mese). Prima o poi, si dovrà pensare a uno “zoccolo previdenziale”, finanziato dalla fiscalità generale, a cui aggiungere il trattamento “contributivo” e, per coloro che possono e vogliono, una pensione “integrativa” finanziata privatamente.
Cosa fare? Una netta separazione tra varie forme di “assistenza” e “previdenza”, come sostiene da sempre questa testata, meglio ancora se togliendo le responsabilità dell'”assistenza” dall’Inps, restituita al suo ruolo di “fabbrica delle pensioni”, e concentrandola in un piccolo ente che lavori con chi meglio a livello locale sa identificare i poveri e trovare modi per farli uscire dalla trappola – probabilmente i Comuni. E rivedere drasticamente misure come il reddito di cittadinanza, che a quel si legge sulle cronache dei giornali sono fonte di abusi e sprechi.
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