Può un difensore del libero mercato, come chi scrive ritiene di essere, invocare uno “Stato stratega” che organizzi un “progetto nazionale” capace di invertire il declino dell’Italia portandola verso una configurazione che ne ripari i molteplici gap, produca una maggiore ricchezza interna e permetta una postura di esportatore di ordine e sicurezza nel globo?
La preferenza sarebbe quella di non farlo, dando allo Stato il ruolo di facilitatore e regolatore del libero mercato stesso in una relazione di complementarietà dove lo Stato fornisce garanzie e il mercato ricchezza, la massima libertà del secondo un fattore di moltiplicazione della ricchezza stessa. Per inciso, al momento in Italia è visibile un modello socialista, instauratosi dagli anni ’70, dove lo Stato dovrebbe dare ricchezza e il mercato garanzie economiche. Pertanto la buona prassi del liberale resta quella di promuovere un massimo di libertà e un minimo di tasse. Ma il fermarsi a questa annotazione non basta per dare impulso alla ricchezza dell’Italia: nella nazione mancano programmi capaci di concentrare il capitale sufficiente per vaste riparazioni e innovazioni.
In 50 anni lo statalismo socialisteggiante ha ingessato e depresso il ciclo del capitale, fatto peggiorato dalla poca o inesistente produttività della spesa pubblica in buona parte indirizzata verso un assistenzialismo dissipativo, mantenuto troppo piccole e, per lo più, sottocapitalizzate le imprese italiane, fatto complicato dal sovradattamento al credito bancario – pochi i fondi di investimento – e dalla non soluzione al problema di riduzione dell’enorme debito pubblico. Da un lato, il declino è lento perché il sistema privato ha certa forza. Dall’altro, il declino c’è. Quindi, per invertirlo serve concentrare capitale dove potrà essere produttivo e per esserlo ha bisogno di una regia intelligente da parte dello Stato.
Il punto: è proprio il requisito di concentrazione produttiva del capitale che chiama in causa uno “Stato stratega” che organizzi un “Progetto nazionale di riparazione e rilancio” perché il mercato privato nazionale, indebolito da cinque decenni di pressione negativa e decompetitiva che hanno impedito o espulso la grande industria e soffocato la piccola, non ha sufficiente forza pur essendo il risparmio italiano tra i più alti nel mondo.
L’analisi comparata dei progetti nazionali porta all’evidenza che l’Italia del dopoguerra non ne ha costruito uno sistemico. La Germania ne ha costruito uno mirato al riacquisto di potenza sul piano economico, non potendolo fare su quello militare, così come il Giappone. La Francia ha reagito alla compressione del suo impero spingendo un progetto europeo finalizzato a moltiplicare la sua piccola forza nazionale prendendo nel 1963 il dominio, condiviso con la Germania inizialmente in subordine, dell’area europea occidentale. Ecc.
Da un lato, Roma tra la fine degli anni ’50 e inizio dei ’60 ha tentato di farlo, ma ha trovato barriere poste dagli alleati. Dall’altro, negli anni successivi ha perso capacità politica interna peggiorata da una Costituzione che non ammetteva la verticalità di un Esecutivo pur democraticamente eletto. La prematura cessione di sovranità economica e monetaria a un agente europeo, sostanzialmente la Germania, prima di aver risolto il problema del debito ha poi compresso l’Italia in uno status di periferia, attraente per vacanze e cucina, ma non per il capitale internazionale di investimento, a parte quello predatorio francese. Quindi, ci resta solo il buon uso dello spazio fiscale per trovare il capitale di innesco che finanzi l’inversione del declino: appunto, ciò chiama in causa uno Stato stratega per forza insufficiente del mondo privato.
Speriamo che lo Stato stratega – il concetto inizia a emergere – abbia un indirizzo liberale.
www.carlopelanda.com
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