I segnali di un grande e drammatico regolamento di conti sono maturati in questi anni, dopo l’implosione del comunismo diventato partito di Stato e di dittatura, principalmente in Unione Sovietica e in Cina. La versione in chiave leninista del marxismo non teneva conto di altre interpretazioni, di lotte democratiche secolari e di riformatori della stessa economia di mercato, oltre che di tragiche guerre durate più di un secolo.
In quel 1989, sotto le macerie del Muro di Berlino, abbattuto da persone comuni e che addirittura sconcertò e prese in contropiede alcuni uomini di Stato, ci fu chi pensò che ormai tutto era risolto e la memoria poteva andare anche in pensione (tipica specialità italiana), dimenticando non solo la tragedia di due guerre mondiali, ma anche tutti i misfatti, realizzati da una parte e dall’altra nel periodo della Guerra fredda: gli errori del cosiddetto mondo atlantico, ma soprattutto l’aggressività crescente dell’imperialismo comunista russo, che aveva fallito qualsiasi appuntamento con la storia.
Quando si fecero i conti, ci si accorse che per raggiungere il Pil dell’Olanda (un Paese meno grande di Sicilia e Calabria messe insieme) occorreva sommare il Pil di dieci Paesi dell’Est europeo controllati dall’Urss. Tutto questo si sommava all’Ungheria del 1956, alla Cecoslovacchia del 1968 e al colpo di Stato in Polonia del 13 dicembre del 1981.
Erano indicatori da tenere ben presente nel clima di speranza e di distensione che si era creato, ma la svolta epocale che si presentava necessitava di ben altri interventi a livello mondiale.
Ronald Reagan e Michail Gorbacev si incontrarono, trattarono, discussero a lungo e in fondo rimasero soddisfatti della “grande svolta”, ma un grande trattato mondiale, seguito a un congresso che doveva ricostruire la carta geopolitica, non venne mai fuori, non fu mai vergato.
La prima cosa che si mise in soffitta fu la politica. Purtroppo dava fastidio ai “competenti”. Ma bisogna ripetere un “purtroppo”: l’arte di governo deve tenere conto di tutto e senza la politica una società non trova mai una coesione, tanto meno democratica, e una voglia, un desiderio di partecipazione creativa.
Arrivò invece imperioso il “dettato della finanza” e della “supremazia del mercato” sopratutto. L’intervento dello Stato in economia divenne una vergogna, la funzione della politica economica keynesiana fu addirittura bandita dai libri di economia, dove invece trovarono spazio il “golpista cileno” Milton Friedman e il suo ispiratore, che era stato sbeffeggiato negli anni Trenta dagli stessi studenti di Cambridge in un famoso dibattito volutamente dimenticato, Friedrich Von Hayek.
La signora Margaret Thatcher quasi gongolava gridando: “La società non esiste… ma solo come aggregato di individui, come somma di interessi individuali”. La Thatcher terminava il suo pensiero in questo modo: “L’uomo è un essere economico e massimizzante”.
Dal delirio teorico della “figlia del droghiere” si è passati presto allo strapotere della finanza, al “parlamento” di Davos, dove si decidevano le scelte degli Stati, a una globalizzazione senza alcun controllo politico, a scelte di smantellamento completo dell’industria pubblica. Il tutto condito dall’intellettuale di “classe”, quel Francis Fukuyama che decretava “la fine della storia” e che meriterebbe un Premio Pulitzer o addirittura un Nobel all’imbecillità.
Per carità, l’elenco di chi ha predicato a vanvera è lunghissima. Pochissimi all’inizio degli anni Novanta ebbero la netta sensazione che ci si dirigeva verso il “grande caos”, con prospettive imprevedibili e drammatiche.
Il “grande caos” comincia subito con un’Europa che perde la sua funzione di grande federazione: senza una costituzione, con parametri di Maastricht assurdi, con un allargamento intollerabile a molti Stati e la possibilità di veto per ogni singolo Stato. L’America si infila in guerre assurde, rivela la sua incapacità in politica estera guardando quasi con simpatia alle primavere tra Nord Africa e Medio Oriente che scombussolano il mondo. La Federazione Russa è squassata da vecchi Stati che non la tollerano più, da una mediocrità economica sorprendente e da oligarchi miliardari che girano il mondo. Il tutto avviene con un passaggio istituzionale dalla dittatura comunista all’autarchia.
Chi aumenta la sua forza in questo contesto è la Cina, per la globalizzazione senza regole e non controllata dalla politica, per il mercato immenso che rappresenta, per la sua posizione geopolitica nell’Indo-Pacifico.
La Cina gioca la sua partita, sfuggendo di nuovo alla comprensione politica degli americani. Non è più la Cina che si contrappone all’Urss, per i confini sull’Ussuri e nella guerra con la Cambogia e poi persino con il Vietnam del Nord. Non è più la Cina di Henry Kissinger e del grande “mandarino” Zhou Enlai, che fanno un patto incredibile: “Il problema di Formosa non esiste”.
Ora la Cina vuole diventare la prima potenza mondiale e, mentre guarda a Nancy Pelosi che si azzarda ad andare a Taiwan, spara missili e minaccia. È una minaccia ancora lontana, perché Formosa dovrebbe riunificarsi alla Cina, per ordine di Pechino, entro il 2049. Ma in fondo è un classico della “trappola di Tucidide”, l’infernale meccanismo in base al quale due grandi potenze alla fine inevitabilmente si scontrano.
Pechino guarda quasi “da lontano” quella Russia che doveva conquistare l’Ucraina in tre giorni e invece combatte duramente sul terreno da ormai sette mesi.
Forse qualcuno riesce a comprendere in quale “grande caos” ci si ritrova?
Già dopo la grande crisi finanziaria del 2008, qualcuno evocava grandi libri come I sonnambuli di Christopher Clark. Ma è stato solo un momento passeggero. La grande Europa ha preferito sacrificare la Grecia e adottare la demenziale “austerity”, la “notte dei morti viventi”.
In questo quadro internazionale, dove ci si misura sull’Ucraina, i politici dove sono finiti?
Diventa emblematica e interessante per il “grande caos” la situazione italiana, dove si va a votare il 25 settembre, dove il debito pubblico è arrivato al 170 per cento, ma dove l’economia sarebbe ufficialmente sistemata (boh!) e intanto si litiga sulle alleanze di centrodestra e di centrosinistra.
La sfilata dei protagonisti italiani ha qualche tratto patetico per le piroette di posizione e la totale mancanza di partiti veri, dove si discute sistematicamente di tutto e poi si agisce di conseguenza secondo ideali realistici.
Ci sarebbe da scommettere sul risultato elettorale, ma si ha quasi paura. Un Paese che in trent’anni è riuscito a passare da quarta potenza economica all’ottava, ha già firmato il suo futuro. Senza politica, ovviamente, perché questa è ritornata a essere nell’opinione comune “una cosa sporca”, come ai tempi del fascismo.
Si diceva allora nelle università “Qui non si fa politica!” Chissà se qualcuno in Italia lo ha studiato o se ne ricorda perché glielo ha detto il nonno.
L’impressione purtroppo è che noi italiani siamo dentro al “grande caos”, ma ne siamo al contempo un esempio quasi inimitabile, con tutti i cambiamenti avuti, con il passato manipolato o volutamente dimenticato, con le conversioni molteplici e la totale assenza di partiti almeno normali.
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