La revisione al rialzo delle previsioni sull’Italia per il 2023 da parte della Commissione europea segue di due settimane quella del Fondo monetario internazionale (da -0,2% a +0,6%) e con il +0,8% porta il Pil del nostro Paese sopra le stime del Governo (+0,6%). Come si spiega questo miglioramento delle aspettative sulla nostra economia?



Secondo Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di economia industriale all’Università Cattolica di Milano, «ci sono tanti elementi positivi che fanno sì che il 2023 sembri oggi meno drammatico di prima».

Quali sono questi elementi positivi?

Anzitutto, mi sembra che i previsori abbiano compreso che l’Italia non è più quella di qualche anno fa e conseguentemente la valutano anche in modo diverso dal passato, in particolare il Fmi. I dati sul Pil del 2022, poi, hanno spinto a una semplice considerazione: siccome il 2023 non sarà un anno tremendo come si pensava fino a qualche mese, un Paese che parte con una crescita acquisita dello 0,4% riuscirà molto probabilmente a raggiungere lo 0,6% o lo 0,8%. Le previsioni della Commissione evidenziano anche un calo dell’inflazione che dovrebbe consentire ai consumi di non crollare, anche se chiaramente le famiglie hanno subito una decurtazione significativa del loro potere d’acquisto, sebbene mitigata da vari interventi come quelli contro il caro energia, il mini-taglio del cuneo fiscale o l’assegno unico che ha garantito agli autonomi con figli entrate che prima non avevano. Inoltre, l’occupazione sta tenendo e questo contribuisce a creare nuovo reddito e a sostenere la domanda interna.



La Bce sembra aver assunto una postura più da falco rispetto ai mesi scorsi. Questo potrà mettere a rischio la crescita?

Se l’inflazione scenderà come previsto, le Banche centrali si adegueranno, ma non potranno cambiare atteggiamento prima che questa tendenza diventi evidente. Riguardo la Bce, c’è anche da dire che non può consentire che ci sia un divario troppo ampio tra i tassi dell’Eurozona e quelli degli Stati Uniti, altrimenti si corre il rischio che gli investimenti si spostino dall’altra parte dell’Atlantico, con un danno economico non irrilevante, visto che tra l’altro gli Usa hanno varato l’Ira che fornirà importanti sostegni a chi produrrà sul proprio territorio.



La settimana scorsa c’è stato un Consiglio europeo in cui si è discusso anche della risposta da dare all’Ira. Il risultato è sembrato piuttosto deludente. Cosa ne pensa?

L’Europa sembrava aver imboccato una strada nuova e molto coraggiosa con il Next Generation Eu, forse anche sotto la spinta dello shock della pandemia. Oggi, purtroppo, la situazione appare diversa e sono riemersi gli egoismi nazionali. Ed è un vero peccato perché un maggior gioco di squadra permetterebbe all’Ue di competere meglio sui mercati globali anche in futuro. Quello che mi sembra consenta all’Italia di salvarsi in questa Europa che ha smesso di giocare in squadra è il grande cambiamento della sua industria nell’arco degli ultimi 30 anni.

Che tipo di cambiamento?

Rispetto a Germania, Francia e Spagna abbiamo un’economia che si è spostata dai settori tradizionali, come moda, mobili, ceramiche, che comunque rimangono importanti, ad altri diversificati e abbiamo visto ridursi anche il peso dei settori a economia di scala, che sono poi quelli su cui in genere vertono le grandi riflessioni sulle strategie continentali. Oggi abbiamo un’industria concentrata su meccanica, mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli, farmaceutica e altri comparti dove l’urgenza di trovare una risposta europea alle strategie di Usa e Cina è meno forte. Con questo non intendo sottovalutare il problema, perché non riuscire ad avere giganti, per esempio, nella costruzione di treni o nella cantieristica navale, rappresenta un’occasione persa.

I problemi dell’Europa non incidono, dunque, più di tanto sull’economia italiana?

L’Italia non si deve sentire troppo vulnerabile di fronte a questa incapacità europea, perché i settori dove si è sempre più specializzata sono quelli che richiedono meno di altri delle strategie europee. Ovviamente non fa piacere un modo di operare che rivela un certo dilettantismo da parte dell’Europa.

A che cosa si riferisce?

L’Europa si pone degli obiettivi molto ambiziosi, ma sembra vuol continuare a fare le nozze coi fichi secchi. Ci sono normative e direttive che ci dicono che tra qualche anno bisognerà produrre automobili a zero emissioni o che non si potranno vendere caldaie a gas, ma non c’è nessuna strategia manifatturiera che indichi cosa si intende far dopo e come agire nel frattempo rispetto a settori produttivi che non possono certo sparire dall’oggi al domani. Oppure si vuol puntare sul fotovoltaico o su tecnologie che richiedono materie prime o prodotti, come i pannelli solari, di cui l’Europa non dispone.

Cosa crede vada invece fatto a livello di politica economica italiana per cercare di raggiungere il traguardo indicato dalle previsioni sul Pil o addirittura far meglio?

Secondo me, l’economia italiana è come se avesse ormai preso un abbrivio, fatto di tutte le cose buone che sono state costruite negli ultimi anni, e quindi ritengo che la ripresa di quest’anno sia per gran parte quasi autonoma dagli interventi della politica, tranne che per un punto molto importante: il Pnrr, dove peraltro vedo che si sta lavorando per cercare di snellire la governance, velocizzare le procedure ed evitare i veti locali. È molto importante che questi investimenti che potrebbero irrobustire il Pil quest’anno, ma anche e soprattutto nel 2024, possano prendere corpo concretamente.

(Lorenzo Torrisi)

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