Il Governo ha annunciato che si riunirà il primo maggio per varare il promesso taglio al cuneo fiscale. Data simbolica, annuncio più che simbolico, impegno anch’esso pieno di simboli: l’Esecutivo non pensa solo ai balneari, agli ambulanti, ai coltivatori diretti o alle partite Iva, ma ha a cuore i lavoratori dipendenti i quali oggi sono colpiti dall’inflazione forse ancor più di altre categorie perché i salari sono bassi e non crescono, non esiste scala mobile, nemmeno quella implicita esercitata da chi può scaricare i costi sui prezzi finali. Il sollievo per le buste paga non è grande, ma va visto in funzione della riforma fiscale promessa che dovrebbe muovere i primi passi il prossimo anno per giungere a compimento a fine legislatura. Si tratta di 3 miliardi per i redditi più bassi tra giugno e dicembre, mentre il prossimo anno verranno stanziati 4 miliardi destinati al fondo per la riduzione della pressione fiscale.



Piccoli passi coerenti con la prudenza scelta come bussola per guidare la politica di bilancio. Ma ogni giorno che passa spuntano nuove promesse come il sostegno della natalità tagliando le tasse a chi ha figli a partire dal prossimo anno. Non si sa ancora né come né quanto, quindi è impossibile un calcolo attendibile della spesa necessaria, ma già oggi si stima che solo per far fronte agli annunci attuali la prossima Legge di bilancio dovrebbe mettere in cantiere oneri che oscillano tra i 25 e i 30 miliardi di euro. Per non aumentare l’indebitamento, occorre trovare le coperture che oggi non superano i 4 miliardi di euro.



Il ministro Giorgetti ha ribadito che la prossima Legge di bilancio dovrà essere compatibile con il nuovo Patto di stabilità e di crescita, tutt’ora aperto a diversi esiti. Giovedì e venerdì prossimi si terrà una riunione informale dei ministri economici; all’ordine del giorno la proposta tedesca: aggiungere alla regola sulla spesa pubblica la garanzia di una riduzione effettiva del rapporto tra debito e prodotto lordo, introducendo “una disposizione di salvaguardia con un calo minimo vincolante pari a un punto di Pil”. L’Italia non è d’accordo: introduce un fattore di rigidità che contraddice lo spirito della riforma, inoltre diventa di fatto discriminatorio nei confronti dei Paesi a più alto debito i quali non sono necessariamente i più spendaccioni. Per esempio, è la Francia ad aver aumentato il debito pubblico più di ogni altro Paese: era il 58% del prodotto lordo nel 2001 quando è arrivato l’euro, salito al 98% nel 2019 ora è vicino al 115%; quello italiano è passato nello stesso periodo dal 106% al 134% per raggiungere il 145%.



Una soluzione in grado di rispettare il principio di equità appare più difficile in un’Unione Europea che ha evitato nel suo insieme la recessione, ma sconta quest’anno una crescita inferiore a un punto percentuale. Si prevede +0,7% nell’area euro, con forti disparità: l’Italia cresce poco, ma comunque più della Francia (0,8% rispetto a 0,5%), mentre proprio la Germania, tornata a farsi paladina del rigore se non dell’austerità, rischia una crescita zero o leggermente inferiore (-0,3%). Secondo le analisi economiche dell’Ifo, l’istituto di studi della congiuntura, la produzione rimarrà più o meno allo stesso livello dell’anno precedente (-0,1%). “Dopo un ulteriore calo del Pil dello 0,2% nel primo trimestre del 2023, l’economia si riprenderà gradualmente e, al più tardi a partire dalla metà dell’anno, l’aumento dei salari reali sosterrà l’economia nazionale”, afferma Timo Wollmershäuser, responsabile delle stime congiunturali.

I conti pubblici rimarranno in rosso (un deficit pari all’1,3% del Pil quest’anno, ma c’è chi stima anche superiore ai due punti percentuali). L’inflazione resta uno spauracchio anche se sta scendendo: il picco è stato già raggiunto secondo l’Ifo, i prezzi al consumo dovrebbero crescere del 6%. A preoccupare è che la spinta salariale, di per sé benefica, sfugga di mano: gli scioperi soprattutto nei trasporti hanno dato il segnale di un clima teso che si scarica direttamente sul Governo.

Per l’Italia, vista l’integrazione della catena manifatturiera, è una palla al piede e riduce di fatto gli spazi di manovra della politica di bilancio nazionale. Una Germania ferma, lacerata dai conflitti sociali, divisa sulle priorità di politica economica (favorire la crescita o dare priorità alla riduzione dei prezzi e al pareggio del bilancio) blocca un’Europa che fatica a riprendere il cammino della crescita durevole, e che si presenta troppo debole rispetto alle terribili sfide mondiali, dalla guerra in Ucraina al conflitto ormai sempre più evidente tra Cina e Usa che rischia di schiacciare il Vecchio Continente.

La Cina registra nel primo trimestre del 2023 un Pil in rialzo del 4,5% annuo a fronte del 2,9% di ottobre-dicembre, dopo essere cresciuta del 3% a un ritmo tra i più bassi degli ultimi decenni a causa dei lockdown prolungati. Sia Emmanuel Macron, sia Olaf Scholz sono tornati a corteggiare Xi Jinping sperando che possa tirarli fuori dai propri guai. Gli Stati Uniti tirano i fili in senso opposto e chiedono agli europei di riallinearsi, ma un’Ue stagnante e divisa non è in grado di reggere il doppio confronto con la Russia e con la Cina.

Sembra uno scenario astratto e lontano, in realtà è il palcoscenico sul quale sono chiamati a recitare anche Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti, già il prossimo primo maggio.

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