La politica italiana viaggia a due velocità. Da una parte c’è Mario Draghi il quale, pressato dalla guerra in Ucraina, dall’inflazione, dal rischio di una stagnazione nella seconda metà dell’anno e dall’Unione Europea che vuole risultati nei tempi previsti, cerca di innestare la quarta. Dall’altra c’è un Parlamento che tiene il piede sul freno. In mezzo i singoli partiti della maggioranza che tirano ciascuno in direzioni diverse. Lo si è visto con il provvedimento sulla concorrenza, incagliatosi su quello che in teoria non sarebbe un aspetto di primo piano, come le concessioni balneari. È stato sbloccato solo grazie a un nuovo rinvio.
Ancor peggio sul fisco. Giovedì sera la maggioranza ha raggiunto un minimo comune denominatore al ribasso perché è scomparso il modello duale, cioè la riorganizzazione delle imposte su due soli comparti: quelle sul reddito e quelle sui patrimoni e la ricchezza. Una riforma che avrebbe quanto meno razionalizzato e reso più trasparente un sistema che vede uno squilibrio spaventoso a sfavore dei redditi da lavoro dipendente e delle pensioni, un passaggio ben più importante del catasto per l’insieme dei contribuenti. L’opposizione a raffica da parte del centrodestra a difesa della flat tax sulle partite Iva e della cedolare sugli affitti, ma anche le resistenze da parte del M5s che intende colpire i redditi più alti, hanno rimesso tutto in discussione. Tanto che Maria Cecilia Guerra ha annunciato che Leu non voterà l’articolo 2 della riforma. Il suo partito non ha i numeri per mettere in crisi la maggioranza, ma è abbastanza per rallentare il cammino del Governo. Se ne riparlerà tra un mese dopo la pausa elettorale, perché il 12 giugno si voterà per le amministrative (con eventuale ballottaggio il 26) e per il referendum sulla giustizia che rischia a sua volta di gettare altra sabbia nella riforma Cartabia, una di quelle considerate strategiche da Draghi e dalla Ue.
L’Ue nelle sue ultime raccomandazioni insiste: l’Italia deve attuare le riforme, a partire da quelle previste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, e quindi fisco, catasto, lavoro e concorrenza. Ma deve anche tagliare la spesa, già nel 2023, e avviare la riduzione del debito e del deficit in modo graduale e credibile. È un altro punto dolente. La Commissione non chiede di aumentare le tasse, al contrario di quel che si dice, anzi sostiene che vada ridotta la pressione fiscale, “in particolare le tasse sul lavoro” e raccomanda di “adottare e attuare opportunamente la legge delega sulla riforma fiscale, in particolare attraverso la revisione delle aliquote marginali d’imposta”. Oltre ad “allineare i valori catastali ai valori correnti di mercato” (l’accordo di maggioranza lo esclude), segnala “la razionalizzazione e la riduzione delle agevolazioni fiscali, anche per l’Iva, e le sovvenzioni dannose per l’ambiente garantendo equità e riducendo la complessità del codice tributario”. In generale, la Commissione spinge l’Italia a spostare il peso del fisco dal lavoro ad altri redditi. L’addio al sistema duale non va in questa direzione.
Ma il vero punto dolente del quale i partiti non parlano (e non certo per dimenticanza) è che Bruxelles chiede di ridurre le spese correnti: “Sulla base delle attuali stime comunitarie, l’Italia non limita in misura sufficiente l’aumento della spesa corrente finanziata nazionalmente nel 2022”. L’anno prossimo, l’Italia deve “garantire una politica di bilancio prudente, in particolare limitando la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale al di sotto della crescita del prodotto potenziale a medio termine, tenendo conto del continuo sostegno temporaneo e mirato alle famiglie e alle imprese più vulnerabili agli aumenti dei prezzi dell’energia e persone in fuga dall’Ucraina”. L’Italia insieme a Grecia e Cipro presenta ancora “squilibri eccessivi”.
Il cambio di passo necessario riguarda anche le altre riforme strutturali, a cominciare dalla Pubblica amministrazione: “Le debolezze strutturali di lunga data nel settore pubblico restano uno dei principali ostacoli agli investimenti e alla crescita della produttività” e “la Pubblica amministrazione italiana rimane insufficientemente reattiva alle imprese e inefficiente, a causa della gestione inefficace del pubblico impiego, dell’eccessiva burocrazia e della scarsa capacità amministrativa, in particolare a livello locale”. La procedura d’infrazione resta sospesa, in autunno verrà fatta una nuova valutazione.
Ci siamo dilungati sulle raccomandazioni dell’Ue perché sono la dimostrazione evidente che l’Italia non sta marciando con la rapidità necessaria lungo la road map del Pnrr. E dal dibattito politico corrente sembra che i partiti non se ne rendano conto. È come se i 200 miliardi di euro da investire siano garantiti una volta per sempre, a prescindere dai cambiamenti sui quali il Governo si è impegnato e dai risultati concreti via via realizzati. C’è un processo continuo di controllo sull’esecuzione che non può essere saltato. Anzi, la vera novità del Pnrr è proprio il fattore tempo, cioè i progetti debbono essere realizzati entro un periodo preciso, e questa è la conditio sine qua non. Non era mai successo prima nella storia d’Italia. La vera sfida è che possa davvero accadere adesso. Ma le due velocità e il perverso gioco dei ritardi e dei rinvii, non rendono ottimisti.
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