Il rialzo dello spread ieri ha subito un stop, rimanendo comunque intorno ai 160 punti base. Forse anche per questo motivo il ministro dell’Economia Daniele Franco, come riportano le fonti di stampa, non intende procedere a nuovi scostamenti di bilancio per varare ulteriori misure di contrasto al caro bollette che sta penalizzando le imprese italiane. “Non possiamo dire – spiega Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma – che è semplicemente una questione legata all’instabilità governativa. Questa follia chiamata spread in un’unione monetaria (non c’è per esempio tra Massachusetts e California negli Stati Uniti) esiste perché si prezza il dubbio non piccolo (anche fosse del 10% di probabilità sarebbe enorme) che l’Italia un giorno non faccia più parte di questa unione monetaria. Anche con Draghi lo spread non si è mai azzerato. Quindi, nemmeno lui è riuscito a cancellare del tutto questo dubbio”.



Come mai non c’è riuscito?

Perché probabilmente c’è qualcosa che strutturalmente non va nel rapporto di “fratellanza” tra Germania e Italia: i mercati non sono completamente convinti che ci sia solidarietà tra membri dell’unione. A ben guardare indietro nel tempo, lo spread è salito alle stelle quando la politica fiscale europea ha fallito nella sua missione di unire nella solidarietà i Paesi, riuscendo semmai a distanziarli. I dati ci dicono, infatti, che nell’ultimo decennio c’è stata un’immensa divergenza tra le performance economiche dei Paesi del Nord e quelli del Sud. In questi anni l’Europa è diventata molto più divisa tra chi ha e chi non ha, creando le precondizioni per un disastro in un’unione. Quest’ultima, infatti, funziona quando è attenta a chi soffre di più, altrimenti diventa più fragile. Tornando alla situazione presente, c’è un dettaglio che non deve sfuggire.



A che cosa si riferisce?

Al fatto che il rialzo dello spread si sta verificando nonostante l’esistenza del Recovery fund. Evidentemente, quindi, i mercati non ritengono che sia uno strumento capace di rinsaldare i rapporti tra Nord e Sud Europa.

A proposito di Recovery fund, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, lunedì ha detto che “l’aumento del costo dell’energia rischia di essere superiore l’anno prossimo all’intero pacchetto del Pnrr”. E che quest’ultimo, quindi, “non ci ha messo al sicuro da tutto”…

È chiaro che c’è una risposta di medio lungo periodo al problema che dipende dal modo in cui strutturiamo la nostra politica energetica. Tuttavia, è altrettanto evidente che c’è anche una componente temporanea di questa crisi cui si dovrebbe porre rimedio con la politica fiscale, varando quindi sussidi per abbassare le bollette e aiuti alle imprese. Ma se il Premier e il ministro dell’Economia ricordano l’importanza di mantenere inalterato il deficit rispetto al livello precedente questa crisi energetica, allora vuol dire che in Europa la politica fiscale non può aiutare a contrastare le crisi economiche. E pertanto i Paesi che sono più in crisi ne soffrono maggiormente. E ciò rende di nuovo l’unione più fragile. Tutto questo quando noi insegniamo che un Paese per salvarsi economicamente, quindi politicamente, dispone di due strumenti.



Quali?

La politica monetaria e quella fiscale. Se si rinuncia a usarne uno, che invece negli Stati Uniti è ampiamente utilizzato, si è naturalmente più deboli e diventa più fragile il progetto di unione. Prendiamone atto: in Europa volontariamente ci tagliamo un braccio, siamo monchi di una politica fiscale. E questo è drammatico. Ci ostiniamo a non capire che le crisi esistono, sono naturali, e che fortunatamente circa 100 anni fa Keynes, insieme a un grande politico chiamato Roosevelt, hanno mostrato che possono essere evitati i loro effetti più negativi, anche sulla democrazia (ricordiamoci quello che è avvenuto in Germania che non ha niente a che vedere con l’inflazione, ma con l’austerità che portò al potere Hitler). La miopia tedesca in primo luogo, ma anche di tutti gli Stati membri, in questo senso è drammatica.

Forse lo spread in salita ci sta segnalando che oltre a non avere una politica fiscale rischiamo presto di non avere nemmeno quella monetaria.

Sicuramente la politica monetaria diventerà un po’ più restrittiva, ma non come negli Stati Uniti, dove l’inflazione è più alta perché la priorità è salvaguardare lo sviluppo e l’occupazione, quindi a Washington si era perfettamente consapevoli che con un deficit al 10% del Pil avrebbero dovuto accettare una maggiore inflazione temporanea. In Europa l’inflazione è più bassa perché non si intende sostenere l’economia con il deficit, ma è ritenuto più importante controllare l’inflazione. Gli Usa con gli attuali livelli dei prezzi si stanno chiedendo se alzare i tassi, ma non credo che in Europa li alzeremo molto e in ogni caso la politica monetaria rimarrà profondamente espansiva. Sappiamo, però, che senza che la politica fiscale sia autorizzata a essere altrettanto espansiva, come invece è stata negli Stati Uniti, i risultati sono quelli che sotto gli occhi di tutti: si possono tenere bassi i tassi quanto si vuole, ma se tra gli operatori economici prevale il pessimismo nessuno chiede credito. Non si fanno investimenti se non c’è una prospettiva di crescita.

Come ha ricordato prima, al Mef si vorrebbe lasciare invariato il deficit. Lei vedrebbe invece con favore uno scostamento di bilancio come chiedono diversi partiti?

Già mesi fa sostenevo che era sbagliato ridurre l’indebitamento netto strutturale, che non tiene conto cioè degli effetti del ciclo economico, dal 7,6% al 5,4% del Pil: crede, quindi, che possa essere d’accordo con chi vuole mantenere il deficit inalterato? Lo scostamento di bilancio da 30 miliardi che alcuni partiti chiedono, senza per questo dover essere schierati con uno di essi, è assolutamente sensato. Sarebbe normale alzare il deficit in un frangente come questo, se non fosse che è proibito dal Fiscal compact, che è ancora vivo e vegeto e insito nell’accordo fatto per il Pnrr: il Governo si è impegnato a continuare a fare austerità per avere le risorse dall’Europa. Prendiamone atto.

Lei si era però pronunciato in favore di maggior deficit destinato agli investimenti pubblici. Non cambia nulla il fatto che i partiti chiedano questo scostamento di bilancio per sostegni a imprese e famiglie contro il caro energia?

Sì, cambia che il deficit a questo punto andrebbe lasciato almeno al 9,4% del Pil come nel 2021. C’è una crisi in più, quindi oltre agli investimenti pubblici deve esserci spazio per evitare che piccoli shock temporanei lascino cicatrici permanenti. Tantissime piccole imprese rischiano di chiudere per sempre. Se non le si aiuta con la politica fiscale in deficit, il debito pubblico su Pil di certo non diminuirà, ma anzi aumenterà perché il Pil crollerà.

La situazione non sembra destinata a cambiare molto in futuro. Christian Lindner ha fatto capire che il Patto di stabilità non subirà modifiche sostanziali.

Ho letto le dichiarazioni del ministro tedesco delle Finanze, ma anche quelle di Paolo Gentiloni che mi hanno rassicurato, perché il Commissario europeo ha spiegato che non c’è contraddizione tra aumento degli investimenti e riduzione del rapporto debito/Pil. Spero che questa sia la posizione che verrà rappresentata dal nostro Paese, anche perché la Banca d’Italia in un suo studio ha evidenziato che lasciare spazio a maggiori investimenti in deficit abbatte il rapporto debito/Pil in momenti di crisi. Sempre che, ovviamente, queste risorse siano spese bene. Occorre, quindi, investire anche sulla qualità delle stazioni appaltanti assumendo molti giovani laureati di grande competenza. Non, però, a tempo determinato come si prevede con il Pnrr.

In ogni caso, se prima c’erano dubbi, Lindner ci ha fatto capire qual è la posizione della Germania.

Sì, è vero. L’importante è però avere una posizione italiana, che non sia quella tedesca. Abbiamo bisogno di un Roosevelt italiano che con coraggio vada a parlare con i tedeschi, facendo sentire la nostra voce. Poi si troverà un equilibrio. Che non può essere, però, ridurre il deficit/Pil dall’11,8% (come inizialmente previsto nel Def 2021) al 5,4% in un solo anno: questo non è coraggio, ma è obbedienza sterile che va assolutamente contro la stabilità del progetto europeo.

(Lorenzo Torrisi)

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