Un famoso proverbio cinese dice che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Oggi il dito (probabilmente medio) è quello puntato verso il caos in cui è precipitato il M5s, travolto dallo scontro tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Ma la luna, cioè la sostanza dello scontro, è un’altra: ovvero il controllo dei “grandi elettori” a 5 Stelle che tra gennaio e febbraio saranno chiamati a eleggere il nuovo capo dello Stato. Delegata a Mario Draghi la patata bollente del Recovery plan, affidata a lui la partita dei difficili rapporti con Bruxelles ed evitato il rischio di elezioni anticipate, ora lo sguardo è puntato sulla corsa al Quirinale. Tra poco più di un mese scatta il semestre bianco in cui Sergio Mattarella non potrà più sciogliere le Camere e i partiti in Parlamento dispongono le pedine sulla scacchiera.
L’imprevedibile spaccatura dei grillini cambia completamente lo scenario. Il partito di maggioranza relativa è il perno della legislatura, ma se va in frantumi è difficilissimo rimettere assieme i pezzi e ridare una parvenza di solidità al fronte che tenterà di esprimere il nuovo inquilino del Colle. A farne le spese, a parte il M5s che giorno dopo giorno sta perdendo ogni residua credibilità, è soprattutto il Pd, che aveva puntato tutto sul rapporto con Giuseppe Conte. L’asse con i 5 stelle consentiva ai suoi teorici di utilizzare le truppe pentastellate come massa di manovra per i propri obiettivi. Ma il ritorno di Beppe Grillo scombina i giochi anche a personaggi molto trasversali e meno legati ai partiti, i quali però hanno bisogno dei voti dei partiti.
Candidati accreditati di consensi bipartisan, come per esempio la guardasigilli Marta Cartabia, sono ora costretti a ripensare rapidamente i propri piani. La ministra della Giustizia è già una personalità di garanzia forte, la cui autorevolezza sarà consolidata se dovesse andare in porto la riforma della giustizia. Non è un caso che Cartabia abbia accentuato negli ultimi giorni la presenza mediatica, con una sedie di interviste e apparizioni pubbliche (da Milano è partito un suo tour nei distretti delle corti d’appello italiane) nelle quali ha lanciato il parallelo tra la ricostruzione del ponte Morandi a Genova e quella dell’apparato giudiziario. Un’opera che richiede un cantiere in cui si lavori “giorno e notte” e al quale “siamo tutti chiamati a collaborare”.
L’obiettivo cartabiano è liberarsi della diffidenza con cui viene ancora guardata dal centrodestra. Infatti, se viene meno il sostegno compatto del M5s (che continua a controllare circa un terzo dei parlamentari), occorre trovare un’altra forza politica (o più di una) in grado di garantire un appoggio convinto. E per questo si guarda sul lato destro degli emicicli. In particolare verso Fratelli d’Italia. Già da tempo il Pd strumentalizza Giorgia Meloni mettendola contro Matteo Salvini, molto meno controllabile. La leader di FdI in questo momento sta giocando una partita tutta sua nel centrodestra, non perdendo nessuna occasione per smarcarsi dagli alleati e boicottare la prospettiva della federazione o del partito unico.
Ne è un esempio la battaglia sulle candidature alle comunali, dove la Meloni tenta di imporre personaggi perdenti: clamoroso il caso di Napoli, dove pare aver convinto Forza Italia ad appoggiare Sergio Rastrelli scaricando il magistrato Catello Maresca. Idem a Milano, dove ai tentativi – finora vanificati – di trovare un candidato civico in grado di allargare la base di centrodestra viene contrapposto il nome di Riccardo De Corato.
Se non si può fare affidamento sul blocco grillino, meglio appoggiarsi su quello alternativo a Salvini, quello pompato dai sondaggi, identitario, coerente con sé stesso ma probabilmente perdente alle urne perché difficilmente in grado di andare oltre il 30%. Proprio per questo, la destra antisalviniana che fa comodo al Pd potrebbe tornare utile a costruire nuovi assetti istituzionali. Cartabia al Quirinale, Meloni a Palazzo Chigi, Draghi a Bruxelles: che sia questo il futuro tinto di quote rosa che ci aspetta?
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