“Nei loro lunghi e cordiali incontri siciliani, il nostro Presidente della Repubblica e il suo collega tedesco Steinmeier hanno opportunamente trattato della riforma delle regole fiscali europee, tema su cui Germania e Italia sono – anche se per ragioni diverse – interessate a trovare un accordo”. L’inizio del column del fine settimana di Romano Prodi sul Messaggero suona come registrazione cerimoniale, politicamente neutra. Lo è assai meno di quanto voglia sembrare.
Che i presidenti della Repubblica di Italia e Germania “a lungo e cordiale colloquio” possano toccare un tema di stretta attualità europea come il ripristino dei parametri di Maastricht può apparire scontato. Ma solo a patto di non dimenticare mai un’altra “ovvietà” costituzionale: né Sergio Mattarella, né Frank-Walter Steinmeier avevano – né avranno mai – il minimo potere negoziale o decisionale. In Italia e Germania – repubbliche parlamentari – per il Paese negozia il Governo in carica rispondendo al Parlamento in carica. Nessun altro. Per questo ha fatto arricciare più di un naso l’anomalo “Trattato del Quirinale” siglato fra Italia e Francia durante il Governo Draghi: operazione che qualcuno vorrebbe ora replicare con la Germania. La presidenza della Repubblica francese è legittimata a stipulare trattati internazionali, quella italiana no (infatti la firma materiale, a fianco di quella di Emmanuel Macron, è stata quella di Draghi). Quanto, quindi, gli abboccamenti di Palermo fra Mattarella e Steinmeier siano stati “opportuni” – come Prodi annota con dissimulata levità) – è assai opinabile.
Analogamente, non è chiaro perché Roma e Berlino, due grandi Paesi fondatori dell’Ue, sarebbero interessati a un accordo su “Maastricht 2” “per ragioni diverse”. La ragione, sulla carta, dovrebbe essere unica: rafforzare l’unione monetaria, normalizzare la governance economico-finanziaria Ue dopo la parentesi-Covid e nel mezzo di una grave crisi geopolitica. E poi gli “accordi” a Bruxelles si raggiungono fra tutti i 27 Paesi-membri dell’Unione (anzitutto fra i 20 partecipanti all’Eurogruppo). Gli accordi si fanno fra Italia, Francia e Germania sedute a un tavolo orizzontale con Olanda e Polonia, Ungheria e Portogallo; Malta e Svezia, eccetera. Si fanno di volta in volta con i premier democraticamente eletti e legittimamente in carica: e se la presidenza spagnola di turno nell’Ue fino al 31 dicembre è retta da un premier socialista sconfitto alle elezioni ma deciso a restare al potere, è certamente un problema (Prodi, che è stato presidente della Commissione, avrebbe potuto “opportunamente” rimarcarlo). Gli accordi, lui potrebbe ancora confermare, si fanno con al centro una Commissione nel suo plenum. Quella che dovrebbe dare le carte su “Maastricht 2” ha invece già perso, otto mesi prima del voto, due vicepresidenti esecutivi su tre di Ursula von der Leyen (il capo dell’Antitrust Margarethe Vestager e il super-delegato alla transizione verde e digitale, Frans Timmermans).
Se poi Prodi contrappone con tutta evidenza una “cordialità” tautologica e cerimoniale fra due presidenti a una tensione oggettiva fra i rispettivi Governi (com’è quella maturata nelle ultime ore a Bruxelles sulla crisi migratoria), allora l’ex leader dell’Ulivo sembra addentrarsi nel terreno della tendenziosità provocatoria. Con questa chiara narrazione: con l’euro-Germania l’Italia non ha mai diritto di scontrarsi, neppure su questioni strutturali come migranti e regole finanziarie (al massimo può accettare “accordi”): e per fortuna che c’è il Quirinale (un super-palazzo Chigi, un contro-potere da sempre in “buone mani dem”) a correggere gli errori e i pasticci per definizione inevitabili da parte di un Governo di centro-destra. Meno male che il centrosinistra e i suoi tecnici riescono a garantire il “bene della Nazione”, peraltro mai ben definibile negli obiettivi, nelle scelte e nei risultati.
Mattarella e Steinmeier appartengono entrambi alla famiglia politica socialdemocratica: che sta affrontando una difficilissima campagna elettorale per le europarlamentari di giugno. Cinque anni fa furono i rinnovi a Strasburgo e Bruxelles a funzionare da volano per il “ribaltone italiano” fra Conte 1 e Conte 2: con l’espulsione della Lega dalla maggioranza e il ritorno al governo del Pd, pur nettamente battuto al voto in Italia ed Europa. Il “Governo Ursula” fu lanciato da Prodi sul Messaggero e costruito al Quirinale sotto la regia di Mattarella. E un derivato principale fu l’invio dell’ex premier Pd Paolo Gentiloni a Bruxelles come commissario Ue. Sarebbe proprio lui ora, secondo fitte indiscrezioni, il primo cavallo su cui Mattarella e Prodi (ex colonne della Dc e della Margherita) punterebbero per un ribaltone-bis: magari propiziato da un peggioramento dello spread (che è intanto 50 punti base più stretto rispetto a quello dell’insediamento del Governo Meloni).
Gli accenti cripto-presidenzialisti di Prodi su Mattarella appaiono d’altronde manipolatori su un dossier politico-istituzionale diverso ancora, ma sempre di primo livello: la riforma dello Stato, al bivio fra semipresidenzialismo e premierato. La questione è e resta nell’agenda della maggioranza che ha vinto le elezioni di un anno fa, ma su di esso è caduto parecchio silenzio. E l’impasse non è stata rotta neppure dalla scomparsa di Giorgio Napolitano: di cui tutti gli obituary hanno ricordato la mutazione in senso semipresidenzialista di fatto impressa al Quirinale; e quindi la rielezione e il ritiro dopo soli due anni di secondo mandato.
Il Mattarella dipinto da Prodi come intento a supplire in Europa a un premier “unfit” come lo era mediaticamente Silvio Berlusconi nel 2011, è pressoché sovrapponibile a Napolitano. E in quella narrazione, il “semipresidenzialismo di fatto” che già ha funzionato nelle mani di Napolitano contro Berlusconi e poi in quelle di Mattarella contro Matteo Salvini (e ora, in prospettiva, contro Giorgia Meloni) è la miglior “democrazia materiale” possibile in Italia dentro i confini europei di oggi. Il punto di partenza è lo stesso dei dem statunitensi: per cui le prossime presidenziali non saranno una collaudata prova della democrazia Usa da 248 anni, ma uno scontro apocalittico fra Bene e Male. E il Bene potrà essere solo il voto a Joe Biden o a chi per lui.
Perché, dunque cambiare questo “semipresidenzialismo di fatto” che rende fra l’altro così “cordiali” i rapporti fra Italia e Germania, anche a dispetto del “premier di diritto”? L’affanno di Prodi è ancora una volta leggibile. Fra pochi mesi scadranno per Mattarella i due anni del secondo mandato “short” di Napolitano e l’aspettativa per un suo passo indietro non appare affatto irrealistica: era atteso già dopo il voto 2022, che ha eletto un Parlamento profondamente riformato rispetto a quello che aveva designato al Quirinale due volte il dem siciliano (una dopo la “non vittoria” del Pd alle elezioni 2013, la seconda dopo aver perso quelle del 2018 e in procinto di perdere quelle del 2022).
Un candidato inquilino per un Quirinale autorevole in Europa, è noto esserci: è Mario Draghi, in alcun modo catalogabile con brand partitici. L’ex presidente della Bce e premier in carica nel gennaio 2022 era in lizza già allora e se non fu promosso al Quirinale è stato anche per le resistenze del Pd. Il partito oggi guidato da Elly Schlein (all’opposizione) avrebbe perso l’ultima e più importante poltrona della Repubblica. Questa, nell’Italia “bipolare”, è stata occupata da Oscar Luigi Scalfaro (ex leader Dc), Carlo Azeglio Ciampi (laico, ministro del Tesoro nel Prodi 1), Napolitano (ex leader di Pci/Ds/Pd e ministro dell’Interno nel Prodi 1) e Mattarella (cofondatore del Pd). Nell’arco di un trentennio il centro-sinistra è stato legittimato nettamente solo dal voto politico del 1996.
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