Christine Lagarde, nel corso del Forum della Bce tenutosi a Sintra, ha spiegato che nell’Eurozona “siamo molto avanti con il processo di disinflazione, ma il taglio dei tassi non è un processo lineare, né un cammino predeterminato, ma un passo alla volta”, con valutazioni e rivalutazioni costanti. Dunque, come spiega Domenico Lombardi, Professore di Politiche economiche e Governance dell’Eurozona alla Luiss, di cui dirige il Policy Observatory, «abbiamo una conferma che la velocità di riduzione dei tassi sarà completamente diversa da quella seguita nella fase del loro rialzo».
Alla riunione del Consiglio direttivo del 18 luglio dobbiamo, quindi, aspettarci che i tassi restino invariati?
A giugno l’inflazione nell’Eurozona è scesa al +2,5% dal +2,6% di maggio. Tuttavia, la componente core è rimasta invariata al +2,9%. Inoltre, l’inflazione relativa ai servizi, che maggiormente risente delle dinamiche salariali, è stata pari al +4,1%, come a maggio. Questi sviluppi sui prezzi inducono a ritenere che la Bce rimanderà un ulteriore taglio dei tassi.
Vien da chiedersi quando la Bce potrebbe intervenire vista la situazione dell’economia.
Le prospettive dell’Eurozona si stanno effettivamente complicando: da un lato, abbiamo una serie storica di sostanziale stagnazione dell’economia, peraltro dovuta anche alla politica monetaria restrittiva; dall’altro, vi è una crescente incertezza che, a differenza dei mesi scorsi, non è solo dovuta a dinamiche esogene, ma anche endogene, in particolare per quel che sta avvenendo in Francia.
Da quando Macron ha indetto le elezioni anticipate sui mercati si è cominciato a temere la possibile vittoria del Rassemblement National…
C’è stato un aumento dello spread tra Oat e Bund del tutto inusuale che non è semplicemente riconducibile ai timori che possa andare al Governo il Rassemblement National, ma alla competizione politica che ha portato alla nascita del Fronte repubblicano, una coalizione che non ha nessuna coerenza programmatica, se non impedire che vinca la destra, con promesse elettorali che contemplano una spesa pubblica facile. Non va dimenticato che, con le politiche del Governo uscente, il disavanzo per l’anno in corso è previsto a un livello superiore al 5% del Pil: non a caso la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione per eccesso di deficit nei confronti della Francia. Bruxelles, inoltre, prevede che il rapporto debito/Pil francese nei prossimi dieci anni arrivi a toccare il 140%, un livello comparabile a quello attuale dell’Italia.
Rispetto a questa incertezza di natura interna, in Europa si sa come intervenire?
La procedura d’infrazione obbligherà il futuro Governo francese, a prescindere da chi vinca le elezioni, a negoziare con la Commissione europea un piano di risanamento fiscale, che non solo è richiesto dal Patto di stabilità e crescita, ma rappresenta la condizione necessaria per un’eventuale attivazione del Tpi da parte della Bce. In assenza di conformità alle raccomandazioni della Commissione, verrebbe meno alla radice la possibilità che la Bce intervenga attivando quello che a suo tempo era stato definito il suo “scudo anti-spread”. Qualora, invece, vi fosse allineamento con la Commissione, non va trascurato il fatto che questo strumento non convenzionale, come già l’Omt creato nel 2012, non è stato mai attivato. Finora, entrambi, hanno svolto con efficacia il loro ruolo stabilizzante ex ante, appunto senza che venissero attivati.
Lo spread tra Btp e Bund è salito nelle scorse settimane unicamente come conseguenza del rialzo di quello tra Oat e Bund: l’utilizzo del Tpi per la Francia metterebbe al sicuro anche l’Italia?
Una delle lezioni della crisi debitoria dell’Eurozona di cui dobbiamo far tesoro è evitare che la situazione sfugga di mano e, quindi, intervenire tempestivamente sui focolai di instabilità per evitare che il contagio si propaghi ad altri Paesi del tutto estranei alle cause che hanno portato alla loro nascita. Le condizioni da soddisfare per accedere al Tpi sono molteplici e probabilmente oggi la Francia farebbe fatica a soddisfarle tutte. E sarebbe anche difficile stabilirlo con chiarezza, poiché nelle prossime settimane la situazione politica può essere di transizione, a prescindere da chi vinca. Pertanto la Bce potrebbe trovarsi in difficoltà qualora fosse necessario intervenire prontamente di fronte a rivolgimenti repentini sul mercato.
Non sarebbe meglio se la Bce rivedesse la sua decisione sulla fine del programma di riacquisto dei titoli nell’ambito del Pepp?
Questo strumento consente di intervenire laddove necessario, sempre per ripristinare i canali della trasmissione della politica monetaria, con una certa flessibilità. Benché la Bce abbia detto che rimane sempre pronta a riattivare strumenti del genere, effettivamente la dismissione del Pepp rappresenta un elemento di minor flessibilità rispetto al Tpi, che oltretutto non è mai stato utilizzato. Inoltre, il Tpi rappresenta uno scudo in favore di un Paese o di un gruppo di Paesi, mentre il Pepp è uno strumento dispiegato a favore di tutta l’Eurozona e, pertanto, in grado di rimuovere alla radice l’effetto stigma. Credo sia anche opportuno evidenziare un altro aspetto.
Quale?
La Bce ha voluto cominciare a dismettere gli strumenti di politica monetaria non convenzionale prima di avviare a suo tempo i rialzo dei tassi di interesse con il cosiddetto Quantitative tightening. Tuttavia, essendo l’Eurozona un’unione monetaria di Paesi con politiche fiscali decentrate ed economie eterogenee, è più esposta ad attacchi speculativi. Quindi, la possibilità di avere uno strumento già operativo per poterli contrastare sarebbe stato particolarmente efficace per prevenire e mitigare situazioni di incertezza. Credo che strumenti di politica monetaria ordinaria e non convenzionali dovrebbero poter coesistere, specialmente in un’area monetaria non ottimale come l’Eurozona.
(Lorenzo Torrisi)
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