Preso atto che con i 393 mila nati del 2022 si è migliorato al ribasso, per la decima volta consecutiva a partire dal 2013, il minimo storico di nascite registrate in Italia dai tempi dell’Unità nazionale, non si può neanche credere che il resoconto dei primi cinque mesi di quest’anno induca a immaginare un’inversione di tendenza. Rispetto allo stesso periodo del 2022 siamo infatti in presenza di un calo dell’1,37%: un dato che, se mantenuto, porterebbe anche quest’anno a stabilire un ulteriore record di minimo.



Siamo dunque di fronte a una denatalità che non accenna a fermarsi. Un fenomeno che si è certamente accentuato nel corso dell’ultimo quindicennio, ma che viene ben più da lontano: ha radici nelle profonde trasformazioni sociali ed economiche maturate nel secolo scorso, affiancate e favorite da alcune importanti novità sul piano delle norme e del costume. Non a caso, è da oltre quarant’anni – sin dal lontano 1977 – che il numero medio di figli per donna – espressione sintetica della capacità riproduttiva di una popolazione – è sceso in Italia sotto la soglia delle due unità che assicurerebbero il ricambio generazionale. Oggi siamo a 1,25 con punte regionali che scendono persino sotto l’unità.



Al tempo stesso, nel corso degli anni i continui guadagni in termini di durata della sopravvivenza – peraltro applicati a generazioni che derivano da coorti di nati all’origine particolarmente numerose – sono andati producendo uno straordinario aumento della popolazione nelle età senili e molto anziane. Al 1° gennaio 2023 la percentuale di residenti oltre la soglia dell’età pensionistica (i 67 anni) ha raggiunto in Italia il 21,6% (era l’11,8% quarant’anni fa). Si tratta di 12 milioni 683 mila residenti di cui 842 mila ultranovantenni e, tra di essi, ben 22 mila ultracentenari.



Con questa base di partenza non è difficile immaginare quali effetti vadano profilandosi tanto sul piano degli equilibri di welfare (in primis pensioni e sanità), quanto su quelli del sistema economico, degli orientamenti culturali, e delle stesse scelte politiche e programmatiche. Anche perché c’è sullo sfondo uno scenario fosco – come delineato dalla più recenti previsioni Istat – che ipotizza entro il 2070 un calo di oltre 11 milioni di residenti, quasi del tutto concentrati nella fascia di età attiva (20-66enni), associato a una crescita di 2-3 milioni di potenziali pensionati (67 anni e più) e a un’analoga contrazione delle leve giovanili (0-19 anni). Nello stesso arco temporale, la componente dei “grandi vecchi” (in età 90 e più) dovrebbe salire a 2,2 milioni, di cui 146 mila ultracentenari.

Muovendo da queste premesse, un semplice esercizio di scenario, volto a simulare gli effetti economici “del prevedibile calo della popolazione e della riduzione della quota di residenti in età lavorativa”, mette in luce per il 2042 un’ipotetica contrazione del Prodotto interno lordo (rispetto ai 1.909 miliardi di euro del 2022) pari al 18%. E la variazione negativa raggiungerebbe il 27% allorché si dovesse spingere la valutazione sino al 2062. Di fatto, si giungerebbe a perdere nei prossimi quarant’anni ben 520 miliardi di euro sul piano delle risorse, laddove viceversa, per l’intenso e inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione, ne sarebbero necessarie molte di più. Al fine di garantire qualità della vita, soprattutto sul fronte dell’assistenza e della cura, in un contesto in cui la stessa rete del welfare familiare, fondamentale supporto nel rispondere ai bisogni delle persone, sarà sempre più fragile per via del progressivo assottigliarsi dei legami parentali.

Poiché è innegabile che l’auspicata svolta per arginare la corrente impetuosa del declino demografico nel nostro Paese richieda, in via prioritaria, un efficace e tempestivo intervento sul terreno delle nascite, sono indispensabili iniziative capaci di risolvere gli ostacoli che condizionano le scelte familiari nei percorsi riproduttivi, come il costo dei figli, i problemi di cura, le difficoltà nel conciliare genitorialità e lavoro. E occorre farlo in fretta, senza illudersi che esistano aiuti esterni e magiche soluzioni, come il contributo – pur importante ma non risolutivo e sempre meno consistente – della popolazione straniera, il cui tasso di natalità è sceso dai 23,8 nati per mille abitanti di vent’anni fa agli 11 per mille del 2022.

Per affrontare seriamente il problema dell’insufficiente ricambio generazionale è dunque assolutamente necessario saper combinare gli strumenti della politica e della cultura con un approccio innovativo e diverso dal passato. Occorrono risorse nuove e dedicate, ma servono anche capacità (e fantasia) per immaginare soluzioni organizzative e normative originali che possono avviare la cura di questa nostra demografia afflitta da un brutto male che auspichiamo con fiducia essere ancora adeguatamente “curabile”.

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