Ha sbagliato Giuseppe Conte a irritarsi per l’intervento di Mario Draghi al Meeting di Rimini. Avrebbe dovuto, al contrario, far propria l’agenda che l’ex presidente della Bce ha proposto: passare dai sussidi agli investimenti, puntare su scuola, sanità, digitale, infrastrutture, lavoro produttivo, separare il debito buono da quello cattivo come il grano dal loglio. Il capo del Governo dovrebbe sapere meglio di ogni altro che i suoi nemici, quelli che lo fanno traballare e possono spingerlo fuori da palazzo Chigi, sono all’interno e non all’esterno della maggioranza. Così è, almeno finché non si conoscerà l’esito del voto regionale il 21 settembre e forse anche dopo.
L’appuntamento elettorale è diventato il pensiero dominante dei partiti. Il patto Pd-M5s è saltato perché le sue contraddizioni esterne sono venute alla luce prima del previsto, ma paradossalmente sarebbe stato meglio se fosse andato in porto, lo diciamo proprio noi che ne abbiamo criticato l’incoerenza interna, in omaggio alla stabilità e alla chiarezza. Quanto meno l’accordo avrebbe offerto un quadro chiaro che si poteva accettare o rifiutare, adesso siamo entrati in una guerra di tutti contro tutti.
È proprio questa fase conflittuale e confusa a rendere davvero troppo ottimista la previsione di Roberto Gualtieri. Il ministro dell’Economia sostiene che in autunno vedremo un rimbalzo oltre ogni rosea previsione, tanto che il Prodotto interno lordo quest’anno scenderà meno di quel che stimano le autorità internazionali e la stessa Banca d’Italia, sarà anche inferiore a quell’8% calcolato dal ministero dell’Economia quando a primavera ha presentato il Documento di economia e finanza.
Può darsi che alla fine Gualtieri abbia ragione. Secondo gli economisti che conoscono bene i trabocchetti della congiuntura, il ministro si fa abbagliare dall’industria manifatturiera che senza dubbio mostra segnali di ripresa molto incoraggianti. Però il problema dell’Italia non è la manifattura, dalla quale deriva circa un quarto del prodotto lordo, è tutto il resto, quei tre quarti che vengono dai servizi. Qui i segnali non sono altrettanto positivi. Prendiamo il turismo, i musei, l’intrattenimento (dallo sport ai cinema), ma anche il commercio. È vero che durante il lockdown negozi e supermercati hanno continuato a funzionare, tuttavia l’atteggiamento dei consumatori si è fatto estremamente cauto, anzi addirittura sospettoso. Si compra meno, si tiene la domanda a un regime basso che diventa minimo in settori come l’abbigliamento: i negozi sono vuoti, gli acquisti languono.
Se nei mesi più critici della pandemia la crisi nasceva dall’offerta, oggi rischia di essere provocata dalla domanda, a causa della propensione dei consumatori, ma anche per una riduzione dei redditi a disposizione. Chi ha non spende, risparmia; chi non ha non spende e rischia di finire in bancarotta. Ci si attende un’impennata della disoccupazione l’anno prossimo quando finirà il blocco dei licenziamenti e le risorse per la cassa integrazione saranno agli sgoccioli. Anche Draghi ha messo le mani avanti: sarà improbabile che tutto resti come prima, che ogni azienda, negozio, bottega possa riaprire. E per questo ha invitato a puntare tutti gli sforzi possibili e tutte le risorse disponibili sugli investimenti che possono mettere in moto l’economia, dai servizi (come la sanità e la scuola) alla produzione. La perdita di vecchi posti di lavoro e la creazione di nuovi non saranno operazioni simultanee, ci sarà un vuoto da riempire, un intervallo durante il quale dovranno entrare in campo gli ammortizzatori sociali, quelli esistenti e altri da mettere in campo. Anche per questo non bisogna perdere tempo, scegliere subito e cominciare.
Ma com’è possibile agire in modo efficace e tempestivo se manca l’accordo sulle priorità e se tutti pensano a spendere per accontentare le lobby vocianti e i propri collegi elettorali? Esiste una contraddizione palese tra obiettivi della politica e necessità dell’economia; e dare priorità alla politica, al suo primato, mette in pericolo la ripresa economica. Il Fattore E (il fattore elettorale) rappresenta in questo momento la più pesante palla al piede del Paese. Allora bisogna rinviare le elezioni ammesso che sia possibile? Nient’affatto, sarebbe in ogni caso un segnale pessimo e pericoloso. L’Italia non è in uno stato di emergenza, al contrario deve gestire bene con saggezza e un bel pizzico di immaginazione l’uscita dall’emergenza.
È qui che il Governo e le forze politiche che lo sostengono dovranno misurarsi, mostrando agli elettori quel che sanno fare. Finora hanno esibito troppi lati oscuri. Prendiamo la querelle sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. È una baruffa nominalistica, tutta basata su posizioni ideologiche (fidarsi o no dell’Europa, affidarsi ai burocrati di Bruxelles o addirittura della famigerata troika). Nessuno, sia al Governo che all’opposizione, ha presentato un chiaro progetto su come utilizzare quei 36 miliardi di euro disponibili. È nell’interesse nazionale farne a meno se servono per affittare nuovi spazi per le scuole o per ampliare le terapie intensive degli ospedali, per assumere medici e insegnanti? Il buon senso induce a rispondere no. Ma troppo spesso, come diceva Alessandro Manzoni, il buon senso resta nascosto per paura del senso comune.