Ma il problema italiano si esaurisce solamente nel concitato dibattito tra semi-presidenzialismo e presidenzialismo? Tra un Mario Draghi “pigliatutto” o un futuro ticket di comando che si divide compiti e competenze tra Palazzo Chigi e Quirinale?

Se un grande costituzionalista come Sabino Cassese, qualche settimana fa in un’intervista, ha fatto comprendere che nella stessa Costituzione italiana c’è la possibilità di un passaggio al presidenzialismo, un grande analista politico come Marcello Sorgi fa notare che, al di là dei referendum renziani bocciati, un presidenzialismo di fatto esiste sin dai tempi di Oscar Luigi Scalfaro.



Basta guardare gli interventi decisivi del Quirinale in alcune situazioni di  quelle legislature che dovrebbero appartenere alla cosiddetta e presunta “seconda repubblica”, quella che in realtà non è mai nata.

Nel rissoso dibattito antipolitico italiano, che pare infastidire ormai anche il quasi imperturbabile Draghi, questo nuovo argomento, tra i tanti spesso campati in aria, evita uno dei problemi d’attualità decisivi per il futuro del mondo e per l’assetto geopolitico che è alle porte, che ci riguarda in prima persona e che dovrebbe interessarci, non solo per essere vagamente analizzato nelle pagine interne dei nostri “grandi media” e nei risvolti dei talk show televisivi.



Il risultato di tutto questo rende oggi l’Italia una sorta di “grande provincia”, che non può o non vuole comprendere quello che di drammatico sta avvenendo. In questo modo l’Italia insieme all’Europa è destinata a diventare marginale. Sarà un effetto paradossale di una globalizzazione non riuscita: più che aprirci al mondo e ai suoi problemi, la globalizzazione ci ricaccia nella perenne rissa italiana e nella realtà di un’Europa incompiuta.

Eppure se si alza solo lo sguardo, c’è da spaventarsi e partecipare sempre più intensamente alla comprensione della situazione politica mondiale.



Alcuni giorni fa, il parigino Le Monde faceva un titolo da mettere i brividi alla schiena: “Morire per Taiwan?”, facendo volutamente eco al famoso “Morire per Danzica?”, che di fatto aprì la seconda guerra mondiale. Le Monde è sempre stato un quotidiano informatissimo sulla politica internazionale e sui regimi comunisti. Ai tempi della Guerra fredda capiva le mosse dei sovietici con tre mesi di anticipo.

Ora speriamo che quell’evocazione e quell’equiparazione tra Taiwan e Danzica si riveli un grande errore, ma non c’è dubbio che l’attuale situazione nel Pacifico, lo scontro su Taiwan tra Pechino e Washington sia diventato quasi inquietante e riguardi non solo Usa e Cina, ma tutto il mondo, occidente europeo compreso.

Dall’uscita degli americani dall’Afghanistan c’è stato un crescendo di toni e di minacce che lasciano stupefatti, oltre che spaventati. L’ultima notizia, passata quasi sotto silenzio, è quella della Cina che ha individuato una lista di “irriducibili indipendentisti” di Taiwan, sanzionando il premier Su Tseng Chang, il ministro degli Esteri Joseph Wu e il presidente del Parlamento di Formosa You Shyi-kun con “responsabilità penali a vita”.

Nei loro confronti e delle loro famiglie è stato disposto il divieto di ingresso in Cina e nelle regioni speciali di Hong Kong e Macao. L’ordine viene direttamente dal presidente cinese Xi Jimping. È solo l’ultimo atto, un ultimo avvertimento dopo la minaccia di invasione dell’isola e la risposta durissima del presidente americano Joe Biden: “Se la Cina attacca, noi difenderemo militarmente Formosa”.

Tutto questo viene definito da Henry Kissinger, novantottenne più sveglio e lucido delle nostre “sardine”, “la dimostrazione dell’infermità strategica della nuova classe dirigente”. Kissinger non si riferisce ovviamente solo all’Italia, che liquidò anni fa con una battuta: “È difficile comprendere la politica italiana, è troppo complicata”.

Fu Kissinger, all’inizio degli anni Settanta, a trovare una soluzione di accordo con la Cina insieme al “grande mandarino” Chou En-lai, basata su un paradosso: “Taiwan, l’isola dove si ritirò l’avversario di Mao, Chiang Kai-shek creando uno Stato a parte, esiste. Ma per noi non esiste o faremo finta che non esista”.

Ricordi quasi felice di un’epoca dove la politica dirigeva e anche in Europa si prestava attenzione alla guerra del Vietnam.

Ora la “grande provincia” sembra guardare distrattamente, nonostante l’incubo di una guerra nucleare e tutte le conseguenze, già ora evidenti, di una guerra commerciale dichiarata, che lascia conseguenze devastanti per le economie mondiali e sopratutto per  l’Italia, che è un Paese trasformatore e che quindi ha bisogno di materie prime.

Di fronte alla tragedia di un conflitto come si comporterebbe l’Italia, con chi si schiererebbe? Forse conviene già adesso parlarne con tutto quello che accade. Attualmente nel Pacifico, dopo le dichiarazioni incrociate cinesi e americane, la Cina ha violato più volte lo spazio aereo di Taiwan. Intanto si arma con un’accelerazione impressionante, varando un sottomarino nucleare ogni quindici mesi e costruendo continuamente portaerei.

Gli Stati Uniti hanno risposto con una nuova alleanza anglosassone: Usa, Gran  Bretagna e Australia, dotando quest’ultima in breve tempo di almeno una decina di sottomarini  nucleari. La nuova alleanza è stata denominata “Patto Aukus” e non è ancora chiaro quali rapporti operativi possa stabilire con la vecchia Nato, che di fatto ha avuto al centro sempre gli Stati Uniti.

In più, in tutto il Pacifico c’è una corsa impressionante al riarmo: la Corea del Nord riprende gli esperimenti nucleari e lancia missili a lunga gittata, la Corea del Sud risponde sulla stessa linea.

Poi c’è il Giappone, che quasi violando l’articolo 9 della sua Costituzione del dopoguerra imposta dagli americani, raddoppia gli investimenti militari in chiave anticinese, passando dall’1 al 2 per cento del Pil. Infine, ancora la Cina che esperimenta la sua tecnologia con missili invisibili che possono cambiare direzione.

È possibile che tutto questo non interessi il dibattito italiano e anche europeo? Che cosa ne sarà delle famose e fino a poco tempo fa accettate Vie della seta? Insomma dove staranno l’Italia e l’Europa in un eventuale confronto limitato o globale?

Tutto questo che assomiglia a una polveriera che riguarda il mondo intero sembra estraneo alla pubblicistica italiana.

Se ne ricorda Federico Rampini, un italo-americano, con un libro, Fermare Pechino, ne scrive continuamente con grande competenza su Limes Carlo Caracciolo. Ma poi bisogna andare a informarsi da Graham Allison, che nel 2018 ha pubblicato Destinati alla guerra. Riusciranno l’America e la Cina a sfuggire alla trappola di Tucidide? Il 4 novembre, mentre il Pacifico è in piena ebollizione, è uscito un altro libro, Il lungo inverno del 1933. Alle origini della seconda guerra mondiale di Paul Jankowski. Vi si analizza la conferenza di Ginevra, quando le grandi potenze dell’epoca si mostrarono incapaci di costruire un nuovo ordine all’insegna della sicurezza collettiva e delle norme condivise. Fu la vigilia del disastro.

E non va mai dimenticato il grande libro di Alan John Percival Taylor Le origini della seconda guerra mondiale. Senza contare i moniti di grandi personaggi come Winston Churchill e John Maynard Keynes dopo la prima guerra mondiale, con una dichiarazione simile dopo Versailles: “Questi non stanno facendo un trattato di pace ma preparano una seconda guerra mondiale”.

Per carità, la storia non ripete mai esattamente, ma perché viene così trascurata in Italia e in Europa la situazione esplosiva del Pacifico? Perché non la si studia e si cerca di inserirsi con la proposta di una mediazione ragionevole? Sarebbe un’iniziativa di grande politica estera e il ruolo dell’Italia avrebbe un posto di rilievo.

Fa impressione invece una relazione di Edward Luttwak, fatta qualche giorno fa alla Luiss Business School di Roma. Dice Luttwak: “L’unico posto in Occidente dove i cinesi hanno una grande influenza sociale è l’Italia. La propaganda cinese conta su gente come Romano Prodi, che in Cina vende milioni di libri, Massimo D’Alema, Giovanni Tria. Tutti vanno in televisione e inneggiano alla Cina”. E ancora: “Romano Prodi lavora per i cinesi, trovatemi un altro ex primo ministro che lavora per i cinesi”.

Sperando che Luttwak sia un provocatore, perché non chiarire subito e rispondere magari per le rime in una situazione esplosiva come questa?

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