Si fa presto a dire “affari correnti”, di qui alle elezioni del 25 settembre Mario Draghi dovrà occuparsi di questioni che vanno ben al di là della normale amministrazione, perché l’emergenza non solo non è finita, ma per molti aspetti è appena cominciata. Ciò vale per la situazione economica e sociale e per la guerra in Ucraina, mentre si attende un nuovo ritorno del Covid-19 in autunno e l’esecutivo deve preparare quanto meno le linee guida per organizzare la nuova campagna vaccinale. Tutto ciò con un Governo ormai inesistente, con i partiti dilaniati e preoccupati soltanto della campagna elettorale. 



Draghi si è dato una priorità: completare i 55 obiettivi ancora mancanti per il Pnrr e sperare di portare a casa i 21,8 miliardi di euro previsti per la fine dell’anno. Si tratta davvero di una speranza e non molto di più. È questo il cruccio principale del presidente del Consiglio ancora in carica. Venerdì Draghi ha firmato un circolare che delinea il perimetro, molto vasto, della propria azione, di fatto vuole avere mani libere anche per adottare disegni di legge normalmente non previsti durante crisi di governo, decreti attuativi di deleghe e regolamenti governativi o ministeriali. Tuttavia, c’è bisogno della collaborazione del Parlamento, cioè di questo Parlamento ormai sciolto.



Chiudere la sua (dis)avventura con un flop del Pnrr è quello che Draghi vuole evitare più di ogni altra cosa perché fin dall’inizio era il cuore del suo mandato, insieme alla lotta alla pandemia. Secondo voci che rimbalzano dal Palazzo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è una lettera inviata dalla Commissione europea con un quadro dettagliato di tutti gli impregni presi e non ancora realizzati. Il capo del governo avrebbe strigliato i ministri e si sarebbe convinto che occorreva un colpo d’acceleratore anche a costo di finire fuori strada. La macchina non ha retto e si è schiantata. La macchina dei partiti, ma anche quella amministrativa. 



La giungla delle regole è sempre la stessa nonostante tutti i “decreti semplificazione”, la ragnatela burocratica resta fittissima, i veti s’incrociano e si sovrappongono, le autorizzazioni mancano. Tutto questo mentre il Parlamento si è frantumato di fronte a una misura chiave anche per l’attuazione del Pnrr come la riforma della concorrenza. Quel che ne resta è una brutta copia, tra rinvii balneari, stralci per i tassisti, deleghe (ce ne sono ben sette) che, in regime di “affari correnti”, sono quanto meno controverse. 

Grandi incognite, dunque, ma è certo che non ci sarà alcuna riforma fiscale, rimane in un limbo la riduzione del cuneo fiscale, mentre passa al prossimo Governo un eventuale intervento sulle pensioni: Quota 102 scade a dicembre, poi si torna alla Fornero, circostanza che la Lega vuole evitare come la peste. Si blocca la discussione sul salario minimo, non ci sarà nessuna revisione del Reddito di cittadinanza, e il superbonus al 110% resterà intonso. Non si capisce che cosa potrà contenere il nuovo decreto aiuti che Draghi aveva annunciato: doveva essere corposo, ma a questo punto dovrebbe essere ridimensionato, perché non ci sono le condizioni per prendere decisioni impegnative. La riforma della giustizia è ancora appesa ai decreti da varare sul processo penale e su quello civile. Si attende un prossimo Consiglio dei ministri. 

Intanto, si avvicina il momento di mettere mano alla cornice di politica economica con la Nadef. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza non sarà una passeggiata, visto che le previsioni sono peggiorate nettamente: con un’inflazione all’8% (dato di giugno) e una produzione industriale in discesa, il Pil, che nella prima metà dell’anno è cresciuto del 3,1% rispetto a un trend annuo previsto al 4,7%, sarà in netta discesa di qui a dicembre. Probabilmente si riuscirà a evitare una vera recessione, ma non c’è spazio per tutte le promesse che i partiti hanno già cominciato a fare. Draghi si limiterà a presentare le previsioni o lascerà indicazioni programmatiche ai suoi successori? 

La combinazione letale di inflazione e recessione sarà la preoccupazione dominante della campagna elettorale. La fine del denaro abbondante e a buon mercato incide su tutte le variabili, quelle personali e quelle collettive, i bilanci delle famiglie, i risparmi, i mutui, così come l’onere del debito pubblico. Lo scudo anti-spread del quale tanto si parla è ancora un oggetto misterioso. È vero che non avrà limiti ex ante, ma servirà per l’Italia come per la Germania anche se in senso opposto, la Bce avrà ampia discrezionalità e ci sono quattro condizioni stringenti: il rispetto delle regole generali di Bilancio dell’Ue, l’assenza di gravi squilibri di bilancio, la sostenibilità di bilancio e “politiche macroeconomiche solide e sostenibili”, con l’impegno a rispettare i parametri del Recovery fund Ue (con i Pnrr) e le raccomandazioni specifiche per Paese sulla base del semestre Ue. 

Il Sole 24 Ore registrava ieri le perplessità degli analisti e degli operatori finanziari ed evocava un pericolo: che l’Italia, in piena crisi di governo e con il debito che si ritrova, possa diventare il campo di battaglia tra mercato e banca centrale. A quel punto lo spread salirebbe oltre quota 250. Come influirà sulle elezioni? Si tratta di capire se prevarrà la paura dell’inflazione o quella del default. Nel primo caso può trarne vantaggio la destra, ma attenti, un’efficace lotta all’inflazione richiede una stretta che nessuno vuole, tanto meno Meloni, Salvini e Berlusconi. Nel secondo caso può prendere corpo lo spettro del 2011. E allora non ce n’è per nessuno.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI