La formazione del governo Meloni ha ripristinato le regole del sistema neoparlamentare, dopo ben undici anni in cui gli elettori sono stati messi da parte, il Parlamento è stato svalutato e tanti governi deboli e accentratori si sono succeduti. Con il voto del 25 settembre gli elettori hanno scelto i loro rappresentanti, la leadership, appunto, e il programma, secondo uno stile che è proprio delle grandi democrazie occidentali.



La misura del successo elettorale, appannata solo dall’astensionismo, è tale da sconsigliare giochi di palazzo nel corso dei prossimi anni. Il governo Meloni ha la concreta possibilità di essere un governo di legislatura con tutti i vantaggi politici che ne derivano. Primo tra tutti, si presenterà agli italiani a fine mandato per farsi giudicare da questi e, eventualmente, farsi confermare per un secondo mandato. Almeno questo sembra l’intento della presidente Meloni.



Siamo di fronte ad un governo politico in senso pieno e al di là dei pochi tecnici che ricomprende, tra cui spicca il ministro degli Interni, uno stimato prefetto, ma non un politico. La ragione di questa scelta è legata all’equilibrio tra le forze politiche, per evitare una politica dai toni aggressivi che esporrebbe a critiche. Questo non significa che il governo Meloni intende avere una politica lassista dell’immigrazione; anzi, nel suo discorso Giorgia Meloni è stata molto chiara sul punto, puntando a coinvolgere l’Unione europea sulla vicenda e a farne una politica europea come è giusto che sia.



Nel complesso l’intera compagine è fatta di donne e uomini che sono politicamente responsabili e che, perciò, costituiscono un insieme di ministri in grado di decidere sulle politiche pubbliche, sull’uso delle risorse e sull’implementazione di regolazioni. Se faranno bene, sarà merito loro; se andranno male, sarà loro demerito. Non ci saranno, almeno così si spera, mezze misure e interventi in corso d’opera con cambi di maggioranza, governi di solidarietà nazionale, o altre soluzioni che possano fare smarrire il senso del voto popolare. Tutto si tiene entro questa maggioranza ed entro un tempo storico unico al cui termine, lungo o breve che sia, ci saranno nuove elezioni.

Attorno alla presidente Meloni la squadra rispetta la coalizione nelle sue parti migliori. Intendiamoci, non siamo di fronte ai “cavalli di razza” di cui si poté vantare la Dc degli anni ’50 e ’60. Ma sicuramente non mancano figure di certa competenza, come Urso alle Imprese e al Made in Italy, visto che da viceministro aveva per primo scritto, anche grazie a validi collaboratori, le norme per la protezione del nostro marchio; e come Crosetto alla Difesa, che ha delle buone conoscenze sulle tecnologie militari; e ancora, come Fitto ai Rapporti con l’Ue e al Pnrr, che nonostante la giovane età assomma l’esperienza regionale, meridionale e quella europea.

Ma anche la Lega e Forza Italia hanno dato il loro contributo. La prima, oltre a Salvini, alle Infrastrutture, ha Giorgetti alle Finanze, proprio dove prima regnavano solo tecnici, e Calderoli alle Regioni. Insomma, la Lega, se vuole il federalismo fiscale e l’autonomia differenziata, lo deve non solo dire, ma soprattutto fare. Quanto a Forza Italia, nonostante le convulsioni del suo leader, pare dotata di figure ministeriali di peso con Tajani agli Esteri, dove porta una esperienza europea molto importante, la Bernini all’Università, che può coniugare il tratto politico collaudato con la conoscenza indiscussa delle problematiche della ricerca e del sistema universitario, e la Alberti Casellati, già figura istituzionale, alle Riforme istituzionali.

Molto ci si può aspettare da Carlo Nordio, ministro della Giustizia: un magistrato che ha sempre sostenuto tesi garantiste e tecnicamente apprezzate, lontano anni luce da quelle correnti che hanno disastrato la nostra magistratura e che è arrivato a quella posizione dopo essersi politicizzato attraverso l’elezione. Non un tecnico che fa politica, ma un politico che conosce le questioni tecniche.

Si è fatta tanta storia su alcune deleghe per via dei termini adoperati: la sovranità alimentare, l’istruzione e il merito, la famiglia e la natalità, il mare e il sud, eccetera. Si tratta di un modo di esplicitare un orizzonte politico che mancava da tempo e che mette in evidenza problemi di cui soffriamo da sempre: la crisi dell’agroalimentare, la fuga dei giovani all’estero, la denatalità e il divario territoriale che spacca il Paese. L’importante è che non resti un semplice orizzonte, ma che ci porti a risultati concreti con i quali migliorare la condizione dell’Italia.

Nel suo discorso per la fiducia, presentato alla Camera e depositato al Senato, la presidente Meloni invero ha promesso molto, più di quanto non si potesse sperare, rivendicando la sua posizione di conservatore con la citazione di Scruton sull’ambiente, richiamandosi alla figura del conservatore che è il vero riformista, proprio perché ambisce a conservare il positivo e a eliminare il negativo, per realizzare libertà, giustizia e democrazia. Molto forte è stata la professione dei suoi princìpi di libertà e democrazia e di rispetto della Costituzione repubblicana, così come l’abiura dei totalitarismi, del fascismo e delle leggi razziali. La parola libertà è stata pronunciata ben diciassette volte, compresa la citazione di Montesquieu; undici volte la parola giustizia e ben dieci volte la parola democrazia, e sul tema dei diritti la presidente Meloni, per di più, ha sfidato la sinistra, così come su quella della legalità e della lotta alla mafia, richiamando la figura di Paolo Borsellino.

Inoltre, ha toccato tutti i temi dell’attuale condizione del Paese, compresa la relazione con il fisco, il lavoro e le imprese, dichiarando che il motto del governo sarà “non disturbare chi vuole fare”. Anche sull’Unione europea e sul processo d’integrazione ha avuto parole più che rassicuranti, anzi ha impegnato il suo governo ad essere promotore della riforma dei Trattati per una integrazione rispondente all’attuale situazione, fatta di crisi energetica e di guerra alle porte. Infine, ha toccato i princìpi di libertà dei popoli ponendosi in corretta continuità con il precedente governo sulla vicenda russo-ucraina.

Se tutto questo deve essere preso sul serio, e non vi è motivo per non prenderlo sul serio, si può dire che il merito maggiore del discorso alle Camere della presidente Meloni sia stato il superamento di una destra nostalgica, per una posizione conservatrice e liberale; pragmatica e non ideologica; forte, ma rispettosa delle istituzioni comuni; e, last, but not least, di valorizzazione degli apporti femminili. In questo modo la Meloni avrebbe realizzato quello che non riuscì a Fini, andando ben oltre i confini nazionali come un esempio evoluto di direzione dello Stato da parte di una donna.

Se questo è vero, anche l’opposizione dovrà cambiare parecchio e maturare sul terreno dei contenuti, superando la becera propaganda, che ha portato avanti anche nella recente campagna elettorale, del pericolo costituzionale. Sul punto, la Meloni è stata molto fine, dichiarandosi disposta a partire dal semipresidenzialismo alla francese, “che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra”.

Quanto alle promesse che ha fatto, vedremo ogni giorno se si muoverà nella direzione delle sue dichiarazioni, o se perderà colpi, o cambierà rotta. Quello che è certo è che, se questo governo perseguirà una sostanziale unificazione delle condizioni di vita dell’Italia, realizzando una unità non meramente giuridica, ma anche economica e sociale della Repubblica, allora vuol dire che si è aperta una nuova stagione politica.

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