Tutto il mondo, compresa l’Italia, sta facendo i calcoli con la crisi dovuta alla pandemia, con le possibilità di ripresa, con gli inevitabili strascichi futuri, carichi di ansie per l’incertezza che è ancora sanitaria, ma ormai soprattutto economica, di possibilità di sviluppo e di crescita in un contesto che sarà inevitabilmente diverso dal passato.
Da una parte e dall’altra dell’Atlantico le democrazie occidentali cercano di recuperare il tempo perduto, dopo le acrobazie populistiche degli ultimi anni, riscoprendo il valore della politica, dei Parlamenti, dei grandi partiti che hanno una radice antica ma cercano di rinnovarsi guardando al futuro, osservando con realismo i grandi mutamenti epocali e pensando a che cosa fare per affrontarli.
I nemici storici della democrazia, dall’impero comunista cinese all’ambigua ideologia dell’ex impero sovietico, ai resuscitati “profeti” dell’antico Impero ottomano nella sua variegata versione (Turchia, Iran, Hamas, movimenti terroristici) mettono in atto manovre geopolitiche per trovare un comune denominatore contro le democrazie che hanno sempre detestato.
In un contesto che è in grande evoluzione le definizioni si sprecano: si va da una “nuova guerra fredda” alla “necessità di una forzata coesistenza armata”, fino alla “trappola di Tucidide”, l’anticamera di una nuova guerra mondiale.
Ogni Paese occidentale ha la necessità di reinventarsi, magari ripensando al suo recente passato, per affrontare queste sfide economiche, politiche e geopolitiche.
Guardare anche i nostri problemi partendo da questo aspetto mondiale non vuol dire allargare il campo a dismisura ed evitare la realtà, ma piuttosto osservare attentamente al nostro interno per recuperare il tempo perduto e metterci al passo con i grandi paesi democratici.
Ad esempio appare incredibile che, di fronte ai grandi sommovimenti geopolitici, l’Europa si divida sui green pass e sul valore dei vaccini, sul luogo della finale del campionato di calcio europeo a Wembley e, come al solito, ritardi la sua indispensabile coesione politica, costituzionale, giuridica, di difesa comune, di fiscalità comune, con inevitabili riflessi occupazionali che possono diventare disastrosi. Il Next Generation Eu è un passo avanti, ma non può essere la panacea di tutti i mali e di tutti i ritardi ingiustificati.
E all’interno dei singoli paesi, dove l’europeismo dovrebbe crescere, che cosa accade? La Francia delle ultime elezioni parziali appare come una parodia de Alla ricerca del tempo perduto del suo grande Marcel Proust, con poco più del 30 per cento che si reca alle urne, con una nostalgia gollista, una tenuta della sinistra e la frana del “fenomenale” Emmanuel Macron, contrabbandato anche in Italia per l’illuminato degli illuminati, che raggiunge il 7 per cento e si rivela un disastro, mentre Marine Le Pen ribadisce, una volta di più, di essere uno spauracchio inconsistente.
Poi c’è l’Italia, il nostro Paese, che non può certo essere alla ricerca del tempo perduto, ma deve dimenticare tutto il tempo che ha sprecato negli ultimi trent’anni, dopo aver già immagazzinato e cercato malamente di metabolizzare nel suo Dna venti anni di fascismo e un dopoguerra all’insegna della vulgata culturale comunista, contrabbandata inoltre per riformismo.
Il risultato finale e inevitabile di tutto questo, per una serie di contraccolpi voluti, è la versione tragicomica, che va in onda in questi giorni nello scontro tra Giuseppe Conte e il comico Beppe Grillo su questioni da autentico delirio: democrazia diretta, piattaforma digitale per il voto diretta dall’esperto Vito Crimi, alleanze internazionali con un occhio particolare verso la Cina.
I complici di questa situazione italiana non sono i protagonisti della famosa “casta”, ma piuttosto una classe dirigente imprenditoriale demenziale e incapace (parola di Mattioli e Cuccia), una magistratura di cultura e stampo inquisitorio, un apparato mediatico di rara ipocrisia e dedito per interessi consolidati al lavaggio del cervello.
L’Italia ha infilato, uno dietro l’altro, sessantottismo, terrorismo, tangentopolismo e lotta alla “casta” con una superficialità e allo steso tempo crudeltà che è impossibile trovare in altre parti del mondo, dove pure questi fenomeni sono avvenuti per periodi limitati.
L’antipolitica, che oggi domina culturalmente in Italia, è il frutto avvelenato di questi anni gettati al vento, dell’opportunismo e della voluta confusione propagandata dai clan mediatico-giudiziari al servizio di grandi poteri internazionali e nazionali, i grandi gestori delle privatizzazioni dei primi anni Novanta, quelli che si battevano per la democrazia …nell’interesse della grandi banche d’affari angloamericane.
Si pensi solo al ruolo del Corriere della Sera, che ha avuto per anni alcuni direttori che erano creature dell’avvocato Agnelli e allo stesso tempo erano stati firmatari di manifesti contro il commissario Calabresi e affiliati a Potere operaio. Accanto a questi opinion maker, ogni tanto si sostituivano delle comparse che non mutavano l’indirizzo del giornale.
Si pensi poi al ruolo che hanno avuto gli ex brezneviani Massimo D’Alema e Walter Veltroni (quest’ultimo riscopertosi kennediano!) nel post-comunismo italiano. Si pensi alla nuova sinistra del Partito democratico, con l’ex segretario Nicola Zingaretti, che dichiarava al Corriere della Sera il 20 dicembre 2019: “Conte è un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”.
In fondo, l’Italia non vive in un film famoso come Tre passi nel delirio perché da qualche mese un super-tecnico come Mario Draghi (che conosce la politica meglio di tutti i leader di questo Parlamento di improvvisatori) regge un governo dove tutti parlano, ma alla fine decide il presidente del Consiglio, Mario Draghi appunto.
Si pensi per un momento quale valore raggiungerebbe oggi lo spread (di cui non si sente nemmeno più parlare) senza un proconsole come Draghi. Si pensi al peso europeo e internazionale, reale non immaginario, che ha oggi Draghi al posto di Giuseppe Conte.
I problemi immediati che si pongono oggi in Italia sono due. Il primo riguarda la stabilità del governo di unità nazionale presieduto da Draghi di fronte allo psicodramma incomprensibile della polverizzazione del M5s e degli umori di “supercomici” come Grillo, ma anche Conte. Il secondo problema è che, se non ci saranno contraccolpi, si dovrà pure arrivare a immaginare il dopo Draghi (c’è chi dice anche su un piano istituzionale) con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e le elezioni, prima comunali e poi di fine legislatura.
Immaginare che l’Italia reinventi il suo passato, anche rinnovandolo, con l’intermediazione e la rappresentatività di una rinnovata democrazia è una speranza che non sta dietro l’angolo. Il processo, depurato di tante scorie, è lungo e può vivere su idealità che si devono necessariamente riscoprire. Siamo innanzitutto al rilancio e alla rivalutazione dei corpi intermedi, alla struttura democratica che deve costantemente crescere in un lungo processo. È la speranza a cui si affida l’Italia. È la speranza che aveva Filippo Turati il 26 giugno 1929 quando intervenne nel suo famoso discorso alla Camera: “Rifare l’Italia”.
Se Turati fu sconfitto, in una situazione grandemente compromessa, noi possiamo sperare in uno spirito da grande ricostruzione come nell’ultimo dopoguerra. Consci che il processo sarà lungo, conviene ricominciare al più presto. Altre strade non se ne conoscono e Tre passi nel delirio resta un agguato da evitare.
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