I leader politici che in queste settimane si sono concentrati sul costruire “dopo Draghi” e “dopo Mattarella” hanno sottovalutato le criticità da affrontare.
Quirinale e Palazzo Chigi sono invece intervenuti sui vertici istituzionali e di partito e con decisioni di governo per dare un “giro di vite” a un Parlamento che dava segni di “sbullonamento”. Le ragioni di instabilità e di preoccupazione sono infatti molteplici, ma precise.
In primo luogo il Parlamento non mai è stato così sfasato rispetto al mandato originario, sia come rapporti di forza sia come posizione politica. Il solo partito di maggioranza relativa del 2018 – M5s – ha dimezzato i voti nelle elezioni europee del 2019. La maggioranza degli eletti che, tra M5s e Lega, sono entrati in Camera e Senato nel segno dell’antieuropeismo (ipotizzando anche l’uscita dall’euro) ora sostengono come premier l’ex presidente della Bce. D’altra parte chi, come il Pd, tuonava da più di vent’anni contro l’antipolitica, ha riabilitato il populismo e lo indica come principale alleato.
Tutte queste svolte politiche sono state sancite non da un congresso o comunque da un chiarimento interno, ma sono state frutto di improvvise e ristrette decisioni di vertice lasciando con le idee confuse chi presiede e lavora nelle commissioni parlamentari. Risultato: tra Camera e Senato in 250 hanno lasciato il partito che li ha eletti.
In secondo luogo le precedenti esperienze di governi di “grande coalizione” – l’“unità antifascista” 1944-1947, la “solidarietà nazionale” 1976-1979, le “larghe intese” 2011-2013 – erano una sorta di “compromesso storico” tra due blocchi con forte identità e forte leadership. Il governo Draghi al contrario si base sulla convergenza tra due blocchi che vivono entrambi “guerre civili” al proprio interno: da un lato c’è il M5s che, dopo l’uscita di scena del fondatore-garante Beppe Grillo, vive la lite tra Conte e Casaleggio; e dall’altro il centrodestra di governo in cui, nel tramonto della leadership del fondatore Silvio Berlusconi, vive la lite tra Salvini e la Meloni rimasta all’opposizione con consensi crescenti.
In terzo luogo la maggioranza parlamentare è destabilizzata dal nervosismo per l’imminente campagna elettorale nei principali comuni italiani dove da Roma a Milano, da Torino a Napoli, Firenze e Bologna il centrodestra è all’opposizione mentre Pd e M5s hanno quasi dappertutto difficoltà ad allearsi.
Conte e Letta infatti possono facilmente trovare un accordo dividendosi le candidature a sindaco, ma la “lottizzazione” nazionale si scontra con il fatto che nella realtà locale nessuno, dopo cinque anni di contrasti, è disponibile a dare i voti al candidato sindaco dell’altro partito. E questo dissidio ha spesso come protagonisti i parlamentari di quel territorio. Di certo la posizione di Letta secondo cui addirittura “la collaborazione con il Movimento 5 Stelle dovrebbe essere anche a livello di pensiero e non solo sull’azione di governo” (La Stampa, 1 maggio) non risulta condivisa da gran parte dei Pd che si preparano al voto.
E sia Letta sia Conte, che sono sulla scena come leader con “pieni poteri”, in realtà sembrano un po’ ondivaghi. Letta continua a dondolare tra Draghi e Conte: da un lato il segretario del Pd sembra sostenere Draghi esortando a “un grande Patto per la ricostruzione del Paese” sul modello Ciampi 1993 per dar vita a “una nuova stagione di concertazione” e ancora nell’ultima riunione della direzione Pd sollecita il premier a far assumere al governo una “missione politica”, ma dall’altro introduce nei lavori parlamentari la spaccatura della maggioranza con temi divisivi come ius soli, legge Zan e voto ai sedicenni (come se fossero potenziali “sardine” di sinistra, dimostrando in questo una scarsa conoscenza della realtà giovanile).
Da parte sua il M5s rischia di essere una mina vagante. Conte non ha nascosto il suo livore nei confronti di Draghi nelle interviste al Corriere della Sera e al Fatto Quotidiano. E così dopo la sostituzione di Vecchione a capo dei servizi segreti, che si aggiunge a quella di un altro uomo di fiducia dell’ex premier Conte come il commissario straordinario per la pandemia Arcuri, il quasi “capo politico” del M5s (non ancora iscritto che vuole la lista degli iscritti per farsi eleggere) sembra ancor più di Giorgia Meloni il principale antagonista di Mario Draghi.
Come conseguenza assistiamo nel partito fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio al paradosso di uno scontro tra, da un lato, i 31 parlamentari espulsi per non aver votato la fiducia a Draghi in procinto di scissione e, dall’altro, Giuseppe Conte che è oggi in scena come il più accanito avversario di Draghi.
In questo quadro – cioè con un Parlamento così balcanizzato – nessuna maggioranza ipotizzata per il Quirinale può reggere nel voto segreto e la riconferma plebiscitaria di Mattarella prende sempre più corpo con Palazzo Chigi sempre più stabile. Salvini e Brunetta candidano Draghi al Quirinale, ma la conseguenza sarebbe lo scioglimento anticipato delle Camere che la stragrande maggioranza dei parlamentari – da Forza Italia al M5s, da Iv di Renzi a Leu di D’Alema – considera un suicidio.
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