Produttività, che cos’era costei? Da un po’ di tempo che se ne parlava solo tra i soliti noiosi professori, mentre il dibattito pubblico si concentrava su altro, sui sostegni, sugli aiuti, sul caro bollette, sul superbonus, sul Reddito di cittadinanza, sulle “generose politiche pubbliche” come le ha definite la Banca d’Italia, cioè la panoplia di interventi assistenziali che ha consentito di superare la pandemia e rilanciare la crescita, aumentando il deficit pubblico al 9% nel 2021 e all’8% lo scorso anno, mentre il debito è salito di circa venti punti del Pil. Adesso quella ostica parolina torna attuale.



Di per sé evoca sudore e fatica, comprensibile che non sia popolare, eppure è la chiave per aprire le porte al miglioramento non effimero della crescita e del tenore di vita. Lo ha ricordato il Centro studi della Confindustria nel suo ultimo rapporto: “L’industria italiana si trova incagliata in un circolo vizioso dove la mancata crescita della produttività è al tempo stesso causa ed effetto della perdita di competitività”, scrive.



Pochi giorni prima era stato Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, a dire in sostanza la stessa cosa: “Le prospettive di sviluppo dell’economia dipenderanno in larga misura dalla capacità di tornare a ritmi di crescita della produttività del lavoro nettamente superiori a quelli degli ultimi venticinque anni e almeno pari a quelli medi osservati negli altri paesi dell’area dell’euro”. Invece, per un quarto di secolo “il prodotto per ora lavorata è cresciuto di appena lo 0,3 per cento all’anno, meno di un terzo della media degli altri paesi dell’area dell’euro”.



Due richiami alla realtà, a breve distanza l’uno dall’altro, che ci riportano con i piedi per terra. La congiuntura economica resta favorevole, i media e il Governo hanno sottolineato con soddisfatto ottimismo i dati sulla crescita che continua al di sopra delle attese, anche se a ritmi nettamente inferiori al boom dello scorso anni: da un balzo del 3,7% siamo all’1,2%, mentre nella seconda metà dell’anno si prevede una netta frenata. Da una parte le esportazioni non tireranno più come prima, visto che il nostro principale mercato di sbocco, la Germania si ferma, la Cina non decolla. Dall’altra il rincaro del costo del denaro sta provocando una stretta del credito (imprese e famiglie hanno ridotto le richieste, rinviando sia le spese sia gli investimenti) e un raffreddamento del mercato immobiliare. Anche questo viene sottolineato in parallelo sia dalla Banca d’Italia, sia dalle organizzazioni imprenditoriali.

“L’incertezza sulle prospettive economiche richiede prudenza – ricorda Visco -. C’è da attendersi che il rallentamento ciclico e le più restrittive condizioni di finanziamento determinino un peggioramento della qualità del credito, con implicazioni sulle rettifiche di valore, al momento ancora basse”. Dunque, non possiamo contare su nessuna forza d’inerzia, né su continue iniezioni di spesa pubblica. Bisogna rimboccarsi le maniche. Anche perché l’inflazione scende lentamente e continua a ridurre il potere d’acquisto. Ciò spinge i lavoratori dipendenti a chiedere compensazioni, i lavoratori autonomi a scaricare i costi sui prezzi finali, gli imprenditori a difendere la loro quota di profitti, ciò innesca una spirale che rischia di diventare una nuova fonte d’inflazione mentre si allenta la pressione dal lato delle materie.

Sostiene la Confindustria: “Nei prossimi anni i salari sono previsti recuperare potere di acquisto, in virtù di un meccanismo contrattuale che spalma su più anni gli effetti di fiammate inflazionistiche”. Allora, “rimarrà cruciale che gli aumenti salariali a copertura dell’inflazione siano accompagnati da guadagni di produttività sufficienti ad evitare un’erosione della redditività di impresa a danno della propensione ad investire o a un innalzamento del costo del lavoro che andrebbe ad alimentare le pressioni inflazionistiche”, in quanto le aziende dovrebbero scaricare il maggior costo del lavoro sui prezzi finali.

La Banca d’Italia avverte i sindacati: “Nelle contrattazioni nel mercato del lavoro va evitato un approccio puramente retrospettivo, poiché una dinamica retributiva che replicasse quella dell’inflazione passata non potrebbe che tradursi in una vana rincorsa tra prezzi e salari. Quello che occorre per un recupero del potere d’acquisto è una crescita più sostenuta della produttività. Eventuali misure di bilancio dovranno rimanere temporanee e mirate”.

Sarà cruciale che le imprese investano di più in innovazione, non solo che chiedano meno imposte e contributi. Leggiamo ancora il Governatore: “I margini di flessibilità introdotti nel mercato del lavoro non sono stati accompagnati da investimenti tecnologici adeguati al nuovo contesto; la qualità del capitale umano è ancora insufficiente. Non ne hanno beneficiato né la redditività delle imprese, né le retribuzioni orarie, la cui crescita al netto dell’inflazione è stata tra le più deboli in Europa”.

Il Pnrr può essere d’aiuto. Se finalmente si aprono i cantieri, sarà possibile compensare l’impatto sull’edilizia provocato dal taglio al superbonus, mentre gli investimenti consentiti dai fondi europei possono compensare la riduzione dei consumi, mantenendo positiva la domanda effettiva. “Miglioramenti del piano sono possibili – ha detto Visco -. Nel perseguimento di eventuali modifiche bisogna però tenere conto del serrato programma concordato con le autorità europee; al riguardo, un confronto continuo con la Commissione è assolutamente necessario, nonché utile e costruttivo. Non c’è tempo da perdere”.

Possiamo criticare la Bce, possiamo esercitare tutta la forza di pressione possibile, anzi necessaria, affinché i falchetti di Madame Lagarde seguano un approccio prudente. Ma più che chiedere quel che la banca centrale può fare per noi, più che chiedere altra spesa pubblica a debito, meglio pensare a che cosa possiamo e dobbiamo fare noi stessi per abbandonare la stagnante palude nella quale ci siamo immersi per tanto tempo.

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