È considerata una fuoriclasse della comunicazione Giorgia Meloni. Una capacità rara nel muoversi davanti alle telecamere, ed anche nel rintuzzare ogni affondo avversario. Dopo la performance a “In mezz’ora” viene però il sospetto che la premier rischi di finire prigioniera della propria dialettica. Troppo repentini i cambiamenti di linea per non attirarsi le accuse di tatticismo.
Si prenda il tema delle riforme: nell’arco di 48 ore si è passati da “o la va o la spacca” a “chissene importa”. Soggetto l’esito del percorso per inserire il premierato nella Costituzione, con particolare riferimento al referendum confermativo che al 99,9% chiuderà la procedura. Forse in queste notti alla Meloni deve essere apparso il fantasma di Matteo Renzi, con l’errore capitale di legare il proprio futuro politico alla consultazione del dicembre 2016. Da quella sconfitta, lo ricordiamo, il leader di Italia viva non si è mai pienamente ripreso.
“O la va o la spacca” conteneva lo stesso errore politico, la personalizzazione di un voto referendario ad altissimo rischio. Meglio quindi separare le proprie fortune da quelle della riforma, anche a costo di una frenata estremamente repentina che non può passare inosservata. La posta in gioco è governare cinque anni, il premierato è da oggi abbandonato al proprio destino.
Correzioni di rotta non di poco conto anche sul piano internazionale. Sull’Europa, anzitutto, con il no secco ad alleanze con la sinistra, un no difficilmente compatibile con un quadro in cui Ursula von der Leyen con ogni probabilità avrà ancora bisogno dei socialisti per ottenere un secondo mandato alla guida della Commissione. Certo, la Meloni dice che il suo obiettivo è una maggioranza di centrodestra anche a Bruxelles, e spiega di non aver titolo per dare patenti di presentabilità alla destra di Le Pen e alla Lega di Salvini. Il dialogo con la leader della destra francese avvalora la tesi della premier. Ma i numeri dei sondaggi europei dicono altro, e la maggioranza di centrodestra appare assai poco probabile. Per di più, se i popolari fossero costretti a cambiare cavallo, mollando von der Leyen, per Meloni sarebbe una mazzata, perché la tela dei rapporti sarebbe da ricostruire da cima a fondo. Rischierebbe l’irrilevanza la premier di uno dei tre Paesi più grandi, uno scenario da incubo, e forse il movimentismo è funzionale a nasconderlo dietro una cortina fumogena, almeno sino al 10 giugno.
Non è solo fumo, invece, il posizionamento rispetto alla NATO. Qui la questione è di sostanza. Meloni ha messo il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg sullo stesso piano di Macron: suggerisce maggiore prudenza, mantenere la fermezza e il sostegno all’Ucraina, ma no all’uso di armi occidentali sul territorio russo e no a soldati NATO sul campo. Lei, che si è guadagnata sul campo la patente di atlantismo, da che parte sta? Nel momento grave come si muoverà? Pesano su Meloni le riserve della Lega, e anche quella di Tajani. Pesano pure i timori nell’opinione pubblica italiana. Si pattina su uno strato di ghiaccio sottile, il rischio di essere chiamati a a scelte gravi incombe su tutti i Paesi occidentali, non è certo un problema italiano, e il rapporto privilegiato costruito con gli Stati Uniti in questo anno e mezzo a Palazzo Chigi da solo potrebbe non bastare. C’è una questione di affidabilità agli occhi degli alleati che non può essere trascurata.
Le disinvolte messe a punto della propria linea politica che Meloni ha manifestato nel salotto di Monica Maggioni potrebbero rivelarsi un limite, quando non una mina alla propria credibilità. Ma forse la premier conta sulla velocità con la quale gli scenari si muovono, tanto quelli interni, quanto quelli internazionali. E quindi le decisioni verranno in ogni campo dopo il voto europeo. Assicurarsi il massimo del sostegno possibile è forse la maniera migliore per poter contare, sperando di poter fare la differenza.
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