Davvero pensate che Letizia Moratti si sia dimessa solo perché le divergenze sul tema dei medici no-vax riammessi al lavoro abbiano rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso? Ma soprattutto, davvero pensate che la sua decisione sia stata dettata unicamente da ragioni lombarde? Le latitudini contano. Come i punti di osservazione. E conoscendo Lady Moratti, il suo orizzonte non si è limitato unicamente all’appuntamento della prossima primavera con il voto in Regione. Probabilmente, stante il passato politico della ex Sindaco di Milano, qualcuno le ha fatto notare come i tempi del suo addio fossero maturi non solo per la corsa a palazzo Lombardia. Ma anche per un possibile Big Bang di più ampio respiro. Ad esempio, uno tsunami politico che tra febbraio e aprile del 2023 potrebbe vedere il Paese andare alle urne non solo per le amministrative (Lombardia, Lazio, Friuli Venezia-Giulia, Molise e Provincia Autonoma di Trento più svariati comuni) ma anche per le politiche. Tradotto, l’esperienza di governo – speriamo che sia lunga – di Giorgia Meloni e del suo centrodestra sarebbe in modalità yogurt. Ovvero con una bella data di scadenza stampata sopra.
Mega-election day alle porte e con esso una clamorosa resa dei conti globale? L’elezione alla Camera di Nicola Zingaretti complica le cose a livello di date, poiché il Lazio dovrebbe andare al voto entro febbraio, scadenza che vedrebbe le amministrative anticipate forzatamente rispetto alla forchetta elettorale che normalmente le vede tenersi fra aprile e giugno. Ma si sa, a tutto si può porre rimedio. Persino a certi ridicoli decreti, la cui durata a livello di credibilità ed efficacia è stata più breve della vita di una farfalla. Casualmente, perché colpiti a tempo zero da fuoco emendativo amico. Inoltre, un eventuale profumo di election day che si spargesse nell’aria potrebbe portare a un’accelerazione del congresso in casa Pd, ad oggi fissato da Enrico Letta per il prossimo marzo ma con tre quarti del partito infuriato per tempistiche dilatate e poco consone alla crisi che aspetta il Paese e alla necessità di fare opposizione seriamente. Se l’appuntamento non si limitasse più al già goloso piatto delle amministrative – Lazio e Lombardia in testa – ma potesse andare oltre, chiaramente tutto subirebbe un effetto boost. Anche a livello di alleanze.
Insomma, il Governo Meloni è un crash test dummy. Uno di quei pupazzi messi sulle automobili da collaudare e destinati a schiantarsi contro i muri, così da permettere ai tecnici di valutare le criticità nell’impatto. E quanto avvenuto nelle ultime ore, di per sé pare sufficiente a garantire acqua al mulino di questa tesi. Certo, la falsa partenza su rave party e medici no-vax, capace di far trasparire a tempo zero le mille venature interne al marmo apparente di questo Governo, è balzata all’occhio immediatamente. Ma è altro che conta. Decisamente altro.
Mentre Giorgia Meloni si preparava al suo debutto europeo, la Germania sparava ad alzo zero sul suo Governo per quanto riguarda la questione migranti. Una vecchia diatriba Ue, una di quelle che nelle intenzioni del Primo ministro doveva sancire nettamente la discontinuità del nuovo Esecutivo da quelli che lo hanno preceduto. Il famoso, la pacchia è finita. Al netto dei torti e delle ragioni, il busillis sta altrove rispetto alla questione legata a Trattati e diritto di navigazione. Nelle stesse ore in cui Berlino partiva all’offensiva contro Roma, nella medesima capitale tedesca si trovava il ministro Giancarlo Giorgetti a colloquio con il suo omologo Christian Lindner. Insomma, il draghiano titolare del Mef ha scelto la Germania come meta del suo debutto ufficiale all’estero. Proprio nel pieno della svolta cinese di Berlino, così criticata Oltreoceano e dalle colonne del Financial Times. Ma Giancarlo Giorgetti è uomo di specchiata fedeltà atlantica, certamente non catalogabile come nemico degli Usa. Anzi. Quindi, per capire la ragione di quella scelta occorre scendere in profondità, più o meno negli abissi del Pil previsto per Italia e Germania nel 2023. Uno sprofondo. E non è un caso che Christian Lindner sia andato oltre al richiamo di Giancarlo Giorgetti sulla necessità di maggior coordinamento e collaborazione in sede europea in fatto di energia.
Il ministro delle Finanze di Berlino ha sottolineato il forte e storico interscambio commerciale fra i due Paesi, quasi a voler stuzzicare l’anima nordista del ministro leghista. Il quale sa benissimo che il grosso del business legato a subfornitura, meccanica e componentistica fa riferimento a PMI d’eccellenza del Nord Italia. Il pericolo reale esiste: se Olaf Scholz tornasse dal suo viaggio in Cina, dove sarà accompagnato da tre quarti della Confindustria tedesca, con una valigetta piena di accordi e impegni per produrre o acquistare a minor qualità ma a prezzi migliori dal Dragone, partner fondamentale per tutto ciò che riguarda i materiali legati alla transizione green, il contraccolpo per l’industria italiana sarebbe devastante. Poiché andrebbe a innescarsi in un contesto recessivo già durissimo. Inoltre, Giancarlo Giorgetti l’economia la conosce. Bene. E conosce quindi benissimo il decouple appena sostanziatosi, dopo l’ennesimo aumento da 75 punti base compiuto dalla Fed: ora la Bce rischia pesantemente un clamoroso e letale policy error sullo stile di quello compiuto nel 2011 da Jean-Claude Trichet con i due rialzi dei tassi nel pieno della crisi dei debiti sovrani. All’epoca il detonatore era lo spread, oggi il gas.
E ce lo mostra plasticamente questo grafico: Fed e Bce non stanno combattendo lo stesso tipo di inflazione, poiché il peso della componente energetica non è il medesimo. Gli Stati Uniti quindi possono permettersi, pur calmierando con attenzione le reazioni del mercato sulla liquidità, una dipendenza pressoché totale dalla leva storica dei tassi per contrastare l’aumento dei prezzi. Mentre Francoforte non può sperare di operare un off-setting di dinamiche energy-driven unicamente operando sul costo del denaro. Anzi, così facendo rischia appunto l’effetto contrario, il testacoda.
Tradotto, c’è il forte rischio che al prossimo board del 14-15 dicembre, Christine Lagarde schiacci il detonatore del policy error. A quel punto, la palla di neve della recessione prenderà velocità e diverrà valanga sull’Eurozona a tempo di record. Tradotto ulteriormente, primavera 2023 potenzialmente da segnare in rosso sul calendario, quasi come un nuovo 2011 con cui fare i conti. Seppur per dinamiche differenti.
Primavera 2023. Esattamente la scadenza temporale di quel potenziale tsunami elettorale italiano di cui parlavamo all’inizio dell’articolo. Sicuramente, solo fantapolitica. Solo coincidenze. Per precauzione, però, provate a unire i puntini di quanto accadrà sottotraccia nel Governo nelle prossime settimane. Poi, il 15 dicembre, la prima conferma o smentita.
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