L’euro ha perso ancora terreno nei confronti del dollaro e la soglia della parità si fa sempre più vicina. Un problema in più per l’Europa alle prese con un’inflazione che a giugno, nell’Eurozona, ha raggiunto il +8,6%. “La svalutazione della moneta unica rappresenta un altro acceleratore inflattivo, visto che l’Europa è un’economia trasformatrice, a meno che non vi sia una discesa delle materie prime come quella degli scorsi giorni relativa al petrolio.



Bisogna anche dire che non ci sono aspettative rosee per l’economia americana in grado di giustificare il rafforzamento del dollaro” spiega al Sussidiario Luigi Campiglio, ordinario di politica economica all’Università Cattolica di Milano.

Probabilmente le aspettative europee sono peggiori di quelle statunitensi e dunque ci si allontana dalla nostra valuta e ci si rifugia nel dollaro…



Sì, troviamo in questo senso una conferma del fatto che davanti a Fed e Bce, che sembrano voler seguire la stessa strada sul fronte dei tassi, ci sono condizioni di contesto totalmente diverse. La stretta della banca centrale americana arriva dopo una politica fiscale iper-espansiva che in Europa non si è ancora vista.

Se le condizioni di partenza sono differenti, vuol dire anche che applicare la stessa ricetta avrebbe effetti diversi?

Certamente un’inflazione superiore all’8% è un problema anche negli Stati Uniti, ma di minor entità rispetto all’Europa, perché il rischio di una brusca frenata dell’economia è maggiore per noi. In qualche modo ne vediamo già i segni in quel che sta avvenendo in Germania. Colpisce non solo il salvataggio pubblico di Uniper, ma anche il fatto che per la prima volta dal 1991 è stato registrato un deficit commerciale. Se si ferma quella che storicamente è stata la locomotiva europea, allora sono dolori. Anche per noi, per l’industria del Nord Italia strettamente connessa con quella tedesca.



Affrontare un’inflazione così elevata non è semplice, c’è il timore che aumentando i redditi si possa innescare la temuta spirale prezzi-salari.

Un’inflazione all’8% in Italia non è sostenibile perché va veramente a drenare potere d’acquisto in una misura e in un’ampiezza, soprattutto per i redditi bassi, che non possono non essere avvertite. C’è chi con la liquidità e i risparmi cumulati riuscirà ad assorbire i rincari e chi no. In quest’ultimo caso, però, stiamo parlando di almeno il 20% della popolazione. Aumenterà il numero di chi passerà dai supermercati ai discount e di chi taglierà la quantità di cibo acquistata o ne diminuirà la qualità. Dunque, se è giusto temere l’innesco della spirale prezzi-salari, occorre anche mettere in conto il rischio di una diminuzione rilevante dei consumi, quindi un rallentamento forzato dell’economia.

Un rallentamento che non dipenderebbe solo dalla guerra.

L’enorme pacchetto di politica fiscale messo in moto negli Stati Uniti negli ultimi due anni ha aumentato fortemente la domanda aggregata ed è per questo che si è mossa la Fed. La Bce si è messa sulla stessa strada, ma in Europa, con il Recovery fund, non c’è stata una politica fiscale della stessa entità. Anzi, a voler essere onesti dobbiamo ancora capirne l’effettiva ricaduta positiva. Detto in modo molto semplicistico, se la domanda è maggiore dell’offerta negli Stati Uniti, lo stesso non si può dire per l’Europa. Al massimo, quindi, riescono a trarne beneficio le aziende esportatrici.

Se però la stretta monetaria riduce la domanda negli Usa, questo beneficio verrà meno…

Sì, anche se va ricordato che ci sono aree, come il Giappone, dove finalmente dopo decenni di deflazione si registra un rialzo dei prezzi (+2,5%) e questo offre sicuramente spazi di crescita che sarà importante cercare di intercettare. Se ci stiamo infilando in una situazione di bassa crescita, come gli Stati Uniti, la stessa cosa non accadrà in altri Paesi del mondo. Bisogna cercare di andare a traino di chiunque si trovi su una traiettoria di crescita. E l’Asia sembra esserlo.

Come affrontare nel frattempo gli effetti dannosi dell’aumento dell’inflazione?

Come detto in altri occasioni, purtroppo in Italia mancano stabilizzatori automatici che garantiscano interventi immediatamente operativi nel momento, per esempio, in cui una persona perde il lavoro. Il Governo sta quindi facendo una scommessa non facile: contenere i divari economico-sociali che si stanno creando, e se possibile impedire che se ne formino di nuovi, tramite sostegni mirati.

Nell’attesa che l’inflazione da costi sperabilmente si sgonfi, per questo tipo di misure si dovrebbe attingere dal gettito fiscale aumentato per via dell’inflazione anziché conservarlo per migliorare i saldi dei conti pubblici?

In una situazione inflattiva come quella attuale è chiaro che l’extragettito andrebbe gestito per consentire al Paese di tirare il fiato sul piano produttivo, non per questo peggiorando i conti pubblici, ma anzi contribuendo a migliorarli spingendo sulla crescita, il famoso denominatore dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil. Può esserci purtroppo la tentazione di destinare quelle entrate aggiuntive alla diminuzione del disavanzo, ma abbiamo già visto in più di un decennio che l’austerità non funziona. Nel frattempo si spera che a livello europeo la politica fiscale riesca a fare qualche passo nella giusta direzione.

(Lorenzo Torrisi)

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