La scissione di M5S, già ridotto nei sondaggi intorno a un terzo del consenso registrato nelle elezioni politiche del 2018, viene interpretata dalla maggior parte dei commentatori politici come l’indicatore dell’esaurimento del ciclo populista della politica italiana. L’ex capo popolo dei 5 stelle si è trasformato nell’alter ego di se stesso. Il suo ex compagno di merende sovranista si aggira frastornato in attesa dell’annuncio della fine corsa da parte dei maggiorenti della Lega. 



A quanto pare il populismo logora chi lo pratica e, a differenza di quanto affermava Giulio Andreotti, rende incapaci di gestire il potere per via della difficoltà di coniugare una sgangherata strategia di costruzione del consenso con un’azione di governo che deve fare i conti con quel principio di realtà che risulta indispensabile per governare un Paese complesso. Ma è davvero finita la stagione populista o siamo in attesa del ricambio dei suoi protagonisti?



I motivi per dubitare dell’esaurimento del ciclo populista sono molteplici. Gli effetti nefasti di alcuni provvedimenti adottati dal Governo giallo-verde, e implementati dal Conte bis con il concorso entusiasta del Partito democratico, hanno lasciato il segno nelle finanze pubbliche (23 miliardi per Quota 100, circa 27 già spesi per il Reddito di cittadinanza, oltre 70 già prenotati, ma coperti finanziariamente solo per la metà, per il Superbonus per le ristrutturazioni edilizie). Su queste materie non ci sono segnali di pentimento. Anzi, stando alle dichiarazioni le forze politiche stanno affilando le armi per promettere un’altra vagonata di miliardi per finanziare la cosiddetta lotta alla povertà, per continuare ad anticipare l’età pensionabile, per evitare le conseguenze disastrose di un collasso delle imprese delle costruzioni se lo Stato non si farà carico di assicurare la continuità dei crediti d’imposta per le ristrutturazioni edilizie.



Nonostante la montagna di risorse messe in campo, la povertà continua ad aumentare, non si trovano lavoratori disponibili per sostituire l’esodo dei pensionati, e i rendimenti degli incentivi pubblici per il risparmio energetico delle abitazioni risultano decrescenti rispetto alle precedenti detrazioni fiscali. Ma tutto ciò non sembra turbare più di tanto la nostra classe dirigente politica.

Quelli appena citati non sono incidenti di percorso, ma gli ultimi anelli della catena di una deriva che affonda le sue radici nei fallimenti dei propositi riformatori che avevano accompagnato la nascita della Seconda Repubblica. E che hanno privato il nostro Paese di istituzioni efficienti, di un welfare orientato a favorire la rigenerazione e la crescita di una solida popolazione attiva allineata con le dinamiche degli altri Paesi sviluppati, di un modello redistributivo efficiente e in grado di conciliare una crescita del reddito con una redistribuzione equa dei risultati. 

La mancata modernizzazione delle istituzioni negli anni della globalizzazione dell’economia e dell’avvento dell’euro è stata compensata facendo leva sui vincoli esterni imposti dai mercati finanziari e dalle istituzioni europee per contenere le dinamiche espansive della spesa corrente pubblica, e da una parallela espansione delle economie sommerse “fai da te” che hanno sottratto all’erario una media annua superiore ai 100 miliardi di euro. Con il risultato parallelo di alterare anche la qualità e l’efficacia della funzione redistributiva delle istituzioni pubbliche. 

La descrizione dell’Italia come Paese popolato da milioni di poveri, oppressa dai vincoli esterni e non in grado di risarcire le vittime di una globalizzazione selvaggia, e stata assunta come una premessa condivisa da tutte le forze politiche per offrire il loro concorso al raddoppio dei volumi della spesa assistenziale. Ottenendo come brillante risultato il raddoppio del numero dei poveri nel corso dell’ultimo decennio.

Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, nell’occasione della presentazione di un suo recente libro che documenta lo stato comatoso del fisco italiano, afferma che ci sono in Italia 19 milioni di persone fisiche classificabili a vario titolo come evasori. Buona parte dei quali continua a esserlo nonostante i provvedimenti di condono, sconto degli importi e rateizzazioni dei pagamenti e tale da far considerare come sostanzialmente inesigibili, o difficilmente recuperabili, circa 900 miliardi di euro di crediti vantati dallo Stato. La periodica constatazione di un’evasione generata con il concorso di un numero abnorme di cittadini diventa oggetto di scandalo, di invocazione di controlli spietati. Poi la cosa finisce lì. A nessuno viene in mente di suggerire l’opportunità di rileggere in modo appropriato la mappa dei redditi.

Infatti, oltre il 40% dei contribuenti non risulta fiscalmente attivo per via delle soglie di reddito dichiarate o per effetto delle detrazioni, ma la stella polare di qualsiasi riforma rimane quella della detassazione dei redditi più bassi.

Un pregevole articolo firmato da Michele Inserra (Il Quotidiano del Sud del 17 giugno scorso) documenta come nella regione Campania, penultima in Italia nel 2021 come reddito medio pro capite (15.093 mila euro), la spesa per i beni durevoli, a partire dalle automobili e dai mobili per la casa, sia aumentata del 16,8%. Di tre punti superiore alla media nazionale per un valore equivalente di 2,2 miliardi di euro. Una tendenza analoga, anche se meno intensa, è stata registrata in tutti i territori del Mezzogiorno.

Eppure, l’indicatore del reddito ufficiale dichiarato (o addirittura autocertificato tramite le dichiarazioni Isee) viene utilizzato per erogare una vastissima gamma di provvedimenti pubblici per le finalità assistenziali, di sostegni al reddito di varia natura, per stimare il valore degli assegni unici per i figli a carico, per assicurare l’accesso ai servizi pubblici in modo gratuito o privilegiato, per condonare le multe, per usufruire di bonus e delle detrazioni per gli acquisti.

Per queste finalità, vengono inoltrate circa 12 milioni di dichiarazioni Isee ogni anno per prestazioni che riguardano oltre la metà della popolazione italiana. Con tanto di disperazione per coloro che non riescono a risultare poveri per via di un bene immobile incidentalmente ereditato o per la semplice impossibilità di non dichiarare il reddito percepito.

In fin dei conti cos’è il populismo? La tentazione perenne di attribuire a qualcun altro l’origine dei nostri mali, e di esaltarli oltre ogni limite per la finalità di giustificare ogni sorta di rivendicazione e persino i propri comportamenti illeciti.

Come un’Araba fenice il populismo è capace di rigenerarsi sull’onda dei suoi fallimenti, dopo aver liquidato i Masanielli di turno che hanno esaurito i bonus delle promesse mancate. Una Comunità nazionale caratterizzata in modo cronico dall’assottigliamento delle persone che lavorano e da un aumento di quelle a carico di coloro che tirano la carretta rappresenta il brodo di coltura naturale per la rinascita dei populismo. I tratti della nuova ondata sono già in gestazione: i salari imposti per legge, il diritto ad avere un reddito a prescindere dal lavorare, l’esaltazione dell’ozio come stile di vita, l’emarginazione dal dibattito pubblico di tutto ciò che possa essere identificato come dovere, sacrificio, contribuzione attiva. Con tanto di intellettuali e di improvvisati operatori dei mass media disponibili ad aggiornare l’apparato ideologico di sostegno.

Il tutto a carico dello Stato ovviamente, e se necessario con il concorso attivo di nuovi fondi europei per soddisfare ogni tipo di esigenza, compresa la richiesta di mettere a carico del Pnrr l’onere del superbonus 110%, cassata dal Governo in carica per ragioni di pudore.

In questo schema, i Governi Monti, Draghi, e quelli destinati a subentrare nel prossimo futuro ai fallimenti delle forze politiche, per quanto necessari, rimangono incidenti di percorso. Utili per rassicurare le istituzioni europee e i mercati finanziari, e per far digerire qualche boccone amaro dettato da motivi di emergenza. Ma sostanzialmente estranei alle dinamiche della formazione del consenso politico. E per questi motivi anche privi della capacità di incidere sui processi reali.

La possibilità di proseguire l’esperienza del Governo Draghi dopo le nuove elezioni politiche rimane sostanzialmente condizionata all’incapacità del nuovo Parlamento di generare governi di coalizione.

Purtroppo non basterà a reggere le sfide attese nel breve e medio periodo. Il ridisegno delle relazioni geopolitiche è in corso di accelerazione e sta assumendo connotati tali da non lasciare vie di fuga per i Paesi del blocco occidentale. Perché avverrà a prescindere dalle nostre volontà e non prevede prigionieri ma morti sul campo. Purtroppo non solo in modo metaforico. Per reggere le sfide servono più innovazioni, tassi di investimento più elevati, una popolazione attiva più numerosa e più qualificata, un drastico ridimensionamento degli sprechi nell’utilizzo delle risorse pubbliche. 

Non mancano le risorse tecnologiche e finanziarie per poterlo fare. È la dote dei valori condivisi che risulta inadeguata.

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