Gli ascolti televisivi del Festival di Sanremo in questi giorni hanno oscillato tra il 57,5 e il 65 per cento. C’è una strana similitudine tra la percentuale degli appassionati ai nipotini di Nilla Pizzi e Tonina Torrielli e la percentuale dei votanti alle ultime elezioni politiche del 25 settembre scorso, quando si raggiunse una cifra intorno al 63 percento.



Fosse ancora vivo un personaggio come Pier Paolo Pasolini, che è sempre stato visto come un intellettuale di spicco della sinistra impegnata, resterebbe sconcertato. Il suo giudizio sul Festival nazional-popolare era impietoso: “Povere idiozie”. In questo strano periodo storico sono pochi quelli che ricordano alcuni giudizi sui gusti degli italiani, anche se ai tempi di Pasolini lo scarto tra votanti a qualsiasi elezione politica e vita politica in genere non era certo insidiato dai fans di Claudio Villa e Gianni Morandi.



Insomma, la lunga strada verso una democrazia occidentale avanzata appariva ancora lunga, accidentata, schiacciata da ideologie funeste, ma tutto sommato la lunga via sembrava irreversibile.

È abbastanza superfluo ricordare che in questo ultimo trentennio la cosiddetta “nuova repubblica” è letteralmente rotolata in una crisi rischiosa della democrazia, soprattutto per l’avidità di alcuni, per soldi e potere, per l’azione di alcune categorie-corporazioni che hanno fatto una serie di errori incredibili, tanto da favorire la conquista del governo a partiti che hanno tra i loro antenati i fautori della vecchia destra italiana. Quella che poi ebbe una trasformazione e per vent’anni ha cementato niente meno che il fascismo, facendolo diventare un’ideologia italiana, che alcuni vedevano adattarsi, per mentalità e concezione, a tutte le posizioni politiche del Paese.



Anche alla vigilia di quella tragica esperienza ci furono gli errori marchiani della cosiddetta “sinistra intelligente”, quella che aborriva il riformismo. A scuola e nelle università il libro di Angelo Tasca Nascita e avvento del fascismo dovrebbe essere una lettura obbligatoria. Forse servirebbe a far capire che cosa accadde veramente dopo la prima guerra mondiale in Italia.

Ora, cento anni dopo, c’è qualche stratega di periferia che immagina il Festival come una sorta di arma di “distrazione di massa” e Amadeus, con i suoi amici, una sorta di nuovo leader collettivo culturale, che non porta certamente al fascismo che l’Italia ha vissuto, ma al totale disimpegno di massa, al conformismo più banale; in sostanza al nichilismo di massa, quindi alla scomparsa di una comunità, che abbia memoria, visione e spazio sociale, per affiancare sia lo Stato che il cosiddetto mercato verso l’evoluzione di una nuova economia e di una nuova società che si deve studiare, provare, immaginare e mettere in campo per risolvere i problemi che si presentano con una cadenza impressionante.

Facciamo quindi un primo punto: lungi dall’interessarci dei meccanismi interni dello spettacolo sanremese, ci sembra che esso sia comunque lo specchio della situazione del Paese, nel quale si aggiunge confusione alla confusione esistente e si respira sempre un’atmosfera di particolare volontà di immobilismo di fronte alla necessità di riforme sempre più urgenti.

Si vive in un’atmosfera strana, dove sinora non si vede un filo logico e non si riesce a inquadrare un futuro possibile sulla base sia del passato che del presente.

Dietro a manifestazioni “incredibili” e a discussioni altrettanto includenti e pretestuose che la comunicazione di massa fornisce, quasi scompare il grande dramma delle disuguaglianze sociali sempre più marcate, la tragedia della mancanza cronica di lavoro, la ripugnante realtà (dopo secoli di lotte) della precarietà e della presenza di un lavoro che non riesce a ripristinare quello che un tempo si chiamava “l’ascensore sociale”.

Quasi incurante di tutto questo, la nuova classe dirigente italiana (ma anche quella europea non scherza affatto per incapacità) pensa, con tono basso e finta noncuranza, alle consultazioni regionali di domani e lunedì, in Lazio e Lombardia, dove sono chiamati al voto un quinto degli italiani. Quindi un test importante per numero di abitanti e per l’importanza economica delle due realtà.

Dietro a questa finta noncuranza, in realtà, si nascondono grandi timori. Il primo è una maggiore disaffezione e conseguente calo della partecipazione al voto. C’è addirittura chi ragiona su strane e complicate speranze strategiche, viste da destra o da sinistra, sulla minore o maggiore affluenza alla urne. Un delirio.

Poi c’è chi è preoccupato di una affermazione netta della destra e chi teme un ridimensionamento della sinistra al punto da condizionare anche un ipotetico rilancio del Pd in piena bagarre congressuale. Ma a guardare ancora di più, in questa atmosfera strana, c’è la paura di vedere nel risultato di queste elezioni la possibilità di una svolta ancora più netta nelle elezioni europee del 2024, dopo probabilmente un altro anno di guerra scatenata dalla Russia e una serie di polemiche, soprattutto in Italia, sul sostegno agli ucraini.

Come si possa sperare in un rilancio dell’Italia in queste condizioni è un mistero. E, di conseguenza, come è possibile non immaginare che, dal caso Cospito al quadro politico attuale tanto frammentato, ci sia la possibilità di seri disordini sociali?

Si dice che l’Italia abbia innanzitutto bisogno di coesione per affrontare il futuro, per ricostruire un’unità nazionale che non veda una separazione così netta tra Nord e Sud, per riaccendere la speranza di un futuro che sembra sparito con un impressionate calo demografico. Ma in una simile quadro politico radicalizzato, con una tale classe dirigente che non cresce neppure più in partiti veri, quale coesione può diventare possibile?

L’Italia sembra non tanto una società individualista, ma piuttosto una società formata da tribù contrapposte. Si pensi solamente al Giorno del ricordo della tragedia delle foibe, celebrato ieri, 10 febbraio, e istituito nel 2004 dal Parlamento italiano per la tragedia delle foibe che si visse in Istria e a Trieste dal 1943 al 1945.

Nei vocabolari di italiani, almeno fino al 1990, quando si parlava di foibe, arrivava la classica definizione “cavità carsica”: guai a citare i comunisti di Tito che gettavano, appesi e legati a una fune in queste cavità, migliaia di persone fino a farle morire.

I ricordi di quella tragedia erano talmente nascosti che non si è mai parlato di quando gli jugoslavi entrarono a Trieste e la occuparono, con l’invito di Palmiro Togliatti ad accoglierli bene. Nessuno ha mai parlato del segretario del Partito comunista triestino, Vittorio Vidali, più noto come il comandante Marcos nella “guerra di Spagna” e con altri pseudonimi che mascheravano solo un killer di Stalin.

Lo storico inglese Hugh Thomas, autore della “Storia della guerra civile spagnola”, spiegò come Vidali, per conto di Stalin, aveva ucciso Andres Nin, leader del Poum (Partito operaio di unificazione marxista) per dissidi nella sinistra spagnola. Quando gli si faceva questa domanda, Vidali rispondeva in triestino che “Thomas era no storico da salotto”.

Le dimenticanze e le confusioni di molte realtà italiane hanno sempre portato a soluzioni strane e traballanti. Anche quando si viveva in epoche migliori di quella attuale. Con tutta la sua storia, le trattative nascosta, lo stato di “città libera” fino al 1954, il successivo Trattato di Osimo del 1975, causarono tanto risentimento nei triestini che si inventarono la “lista del Melone” e nominarono sindaco nel 1978 Manlio Cecovini, un notissimo massone. La mancanza di verità fa questi effetti.

In fondo, il “Melone” era la risposta che i triestini davano alle menzogne e alle dimenticanze di quel periodo. La paura è che alla fine, tra pasticci, dimenticanze e “distrazioni di massa” per non dire la verità, arrivi pure un “melone” tutto italiano che sposterà la sua forza magari anche in Europa.

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