Il primo maggio, festa del lavoro, cade quest’anno in piena stagflazione. Non è più una minaccia, sta diventando una realtà: il prodotto lordo è sceso dello 0,2% nel primo trimestre, 0,4% in meno dei livelli pre-Covid. Il Governo era stato più pessimista (-0,5%), ma una gara al ribasso per pochi decimali è del tutto inutile, la triste realtà è che la crescita è finita ed è tornato addirittura il segno meno. Il calo è dovuto soprattutto ai servizi che non si sono mai davvero ripresi dalla pandemia (si pensi al turismo), ma s’è fermata anche l’industria che aveva fatto da locomotiva. Senza ulteriori peggioramenti, a fine anno il Pil aumenterà del 2,2%, la metà di quanto previsto prima della guerra in Ucraina, però tutto fa pensare che il ristagno continuerà, mentre i prezzi saliranno ancora.
L’Italia non è sola: la Francia è in crescita zero, la Germania ha fatto registrare +0,2%, la Spagna +0,3%. Dunque ristagnano anche i mercati che sono gli sbocchi principali delle merci italiane. E che cosa succede se la Russia non si ferma?. Non è per fare i pessimisti, ma è saggio in questa situazione prevedere anche lo scenario più nero e preparare un piano B.
Domani il Governo dovrebbe varare un decreto aiuti che s’avvicina ai dieci miliardi di euro e colloca a quota 25 i miliardi finora erogati negli ultimi quattro mesi. Da tutte le parti politiche e sociali si leva un coro: non bastano. Lo sanno anche Mario Draghi e Daniele Franco e stanno cercando risorse aggiuntive. C’è una spinta dei partiti, alla caccia di facili consensi popolari, per tassare di più gli extraprofitti delle aziende energetiche. L’una tantum del 10% sugli imponibili Iva dovrebbe fruttare quasi 4 miliardi di euro, ma provoca anche un’infinità di grattacapi legali. Il che consiglia di non replicare. Si punta allora su un nuovo scostamento di bilancio, sarebbe il settimo dall’inizio della pandemia, si tratta in tutto di oltre 214 miliardi di euro che sono altrettanti debiti aggiuntivi. Continuando di questo passo, avverte la Banca d’Italia, c’è rischio di tensioni finanziarie, anche perché nei prossimi mesi è previsto un rialzo dei tassi d’interesse nel tentativo di contrastare l’inflazione. Più debito, più tassi, meno crescita, s’innesca così un circolo vizioso.
Non solo. Tutto il mondo del lavoro è in agitazione e chiede di essere protetto dall’inflazione. I lavoratori dipendenti protestano per salari già troppo bassi che vengono falcidiati dai prezzi. Gli imprenditori chiedono sgravi fiscali a un Governo che non ha molti margini di manovra. Le partite Iva scaricano solo parte degli oneri sui prezzi finali e vogliono essere compensate. Operai e impiegati hanno ragione, ma non hanno torto nemmeno gli industriali i quali temono una rincorsa prezzi-salari tale da sfuggire di mano penalizzando gli investimenti. Gli autonomi che in teoria possono aggiustare i loro redditi lamentano di essere stati falcidiati da due anni di pandemia e non sono in grado di tener dietro alla pressione dei costi. Tutti dunque dicono il vero o quanto meno la loro parte di verità, ma come si fa ad accontentarli? La risposta è politica prima ancora che economica.
Le tessere sono sul tavolo: bassa crescita, inflazione, debito, tassi, tasse, prezzi, salari e profitti. Ma per il momento è impossibile comporle in un mosaico coerente. Che fare? Si può andare avanti a spizzichi e bocconi con un contentino oggi ai sindacati, domani alla Confindustria, poi alla Confcommercio e così via? Non è forse arrivato il momento di pensare a un accordo tra Governo e categorie economiche, anzi un nuovo patto sociale vero e proprio, qualcosa che assomigli all’intesa del 1993 quando Carlo Azeglio Ciampi era presidente del Consiglio? Draghi la ricorda bene, allora era Direttore generale del Tesoro. L’Italia era in una congiuntura economica e politica disastrosa, quell’accordo diede un contributo fondamentale alla ripresa, abolì del tutto la scala mobile, stabilì una vera politica dei redditi, sancì una revisione del modello contrattuale.
Ci sono molte differenze naturalmente, ma ci sono anche molte similitudini, a cominciare dall’accoppiata mefitica tra stagnazione-inflazione, in uno scenario internazionale terrificante che allora non c’era. L’Unione Sovietica si era da poco dissolta e cominciava “la fine della storia come l’abbiamo conosciuta”, così aveva scritto un anno prima Francis Fukuyama. Adesso il ritorno imperiale della Russia e le minacce alla pace mondiale ci mettono di fronte al pericolo di una fine della storia tout court. L’Italia non può affrontare una congiuntura tanto seria e complessa se non con una politica ferma, rigorosa, sostenuta da un ampio consenso. Ciò rende ancor più necessario un patto concepito con una prospettiva almeno triennale. Il messaggio al Paese sarebbe molto forte e positivo, lo stesso varrebbe per i mercati giocando d’anticipo e bloccando sul nascere eventuali attacchi speculativi.
Chissà se oggi dai microfoni sulle piazze del primo maggio qualche sindacalista coraggioso oserà volare alto, uscendo dal coro delle geremiadi?
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