Ursula von der Leyen e la sua nuova commissione stapperanno lo spumante di fine anno, ma il condominio europeo non sta bene, anzi. “L’austerità, non i populisti hanno distrutto il centro dell’Europa” ha titolato l’FT l’articolo pre-natalizio di Wolfgang Münchau. Verrebbe da pensare che la Germania in crisi sia un monito capace di far invertire la rotta anche ai più convinti sostenitori dell’austerità, e invece non è così. Una ragione c’è, ma dove cercarla? Non nelle scelte contingenti, visto che queste si limitano a bastonare chi trasgredisce le regole. Piuttosto va cercata nei Trattati che stabiliscono il funzionamento dell’Unione Europea. Un funzionamento che il costituzionalista Alessandro Mangia non esita a definire “irrazionale”. Motivo? “In Europa si sta andando a caccia di ornitorinchi da almeno dieci anni” spiega il giurista della Cattolica. Vediamo perché, e capiremo come mai il 2020 sarà peggio.



La nuova commissione è in carica. Una nuova maggioranza composita ha preso il posto di quella basata sull’accordo Ppe-Pse. La costruzione europea è più forte o più debole?

La debolezza o la forza dell’Unione non dipendono – se non in minima parte – dall’ampiezza della maggioranza che manda in carica la Commissione. Certo, una Commissione che si regge su una maggioranza di 17 voti è una Commissione debole, ma questo non vuol dire granché. Avrebbe senso il suo discorso se il Parlamento europeo fosse un luogo di rappresentanza politica, come lo sono o come dovrebbero esserlo i parlamenti nazionali.



E invece che cos’è? Chi o che cosa rappresenta?

Tutta Bruxelles si regge sulle dinamiche della rappresentanza di interessi. Nel discorso pubblico italiano lobbismo, chissà perché, è una parolaccia. Altrove è normale. Bruxelles e le sue istituzioni si reggono sulla rappresentanza di interessi, e Parlamento e Commissione sono i luoghi in senso fisico dove questi interessi convergono per confrontarsi e prevalere.

E allora?

Il risultato di questo gioco di interessi è, di solito, la modifica di qualche tabella o di qualche allegato di una direttiva o di un regolamento Ue. Che a sua volta sfavorisce o avvantaggia qualche settore produttivo in qualche parte d’Europa: dai cacciatori francesi ai produttori di latte polacchi, per arrivare ai grandi conglomerati industriali o finanziari che non hanno più da un pezzo una dimensione territorialmente definibile.



Arriviamo al governo europeo, professore.

La vera forma di governo europea è questa, ed è fatta da interessi che si rappresentano da soli, e che prescindono dalla mediazione politica, offerta dal lavoro parlamentare. Quello che si svolge a Bruxelles, insomma, è lavoro di funzionariato: un tipo di lavoro che in Italia viene sottovalutato e che sembra non si sappia più fare. E Lei capisce che questo tipo di lavoro è in larga misura indipendente dalla composizione di quello che – in uno Stato – dovrebbe essere il vertice politico. Si svolge per linee indipendenti, tanto con una Commissione forte quanto con una Commissione debole.

La robotizzazione completa della politica.

Sì. Tanto più che – a parte le dimissioni, come nel caso della Commissione Santer nel 1999 – è difficile che una Commissione venga meno perché ha una maggioranza debole in Parlamento. Questa è una logica da Stato nazionale. Ma l’Ue non è uno Stato, né nazionale, né federale. E il suo indirizzo politico non è dato dagli esiti delle elezioni europee.

Nemmeno quando il candidato a presiedere la Commissione è scelto con la logica dello Spitzenkandidat?

No, perché l’indirizzo politico della Ue è già inscritto nella lettera dei Trattati. E cioè nel sistema che, da Lisbona in poi, si compone di TUE e TFUE e di tutta un’altra serie di atti che compongono l’assetto istituzionale dell’Unione. La verità è che dei Trattati la Commissione decide solo l’attuazione, non il contenuto.

Però queste scelte determinano la sopravvivenza dei governi: più peso politico di così!

Non ho detto che le scelte della Commissione non abbiano effetti politici, anche molto forti. Ma si tratta solo di scelte che formalizzano, e rendono vincolanti per un intero continente, accordi e intese già esistenti che sono state frutto di un confronto fra interessi nazionali. La Commissione è più un notaio, insomma, che un vero decisore politico. Certo, sappiamo che un notaio può influenzare, e anche di molto, il contenuto di un accordo tra le parti. Ma lei capisce che parlare di un notaio forte o debole non ha senso.

Basta che ci sia.

Esatto. Prova ne sia che ultimamente le varie direzioni generali – e soprattutto quelle economiche – rimproverano alla Commissione di avere assunto, in questi anni di crisi, una dimensione troppo politica. E lavorano per un suo ridimensionamento di ruolo. Sono cose che non si capiscono se non le si vede – o non le si è viste – dall’interno.

Vuol dire che non le capiamo perché non conosciamo più quel tipo di lavoro che una volta sapevamo fare molto bene e ora non più?

È così. Questo non è oscuro e tenebroso “Deep State”: è vita di tutti i giorni a Bruxelles. E le logiche della burocrazia sono già state spiegate benissimo da Max Weber più di un un secolo fa. Basta rileggerselo ogni tanto e torna tutto, o quasi tutto.

Veniamo però al punto. Come si spiega che i sacerdoti e le vestali dell’austerità europea, scritta nei Trattati, preferiscano morire di austerity piuttosto che cambiare regole e parametri?

Non si capisce l’attaccamento alle politiche di austerity se non si parte dalla premessa che i Trattati sono essenzialmente una codificazione di politica economica. E dico codificazione in senso stretto, così come posso parlare di un Codice Civile o Penale. Riflettono e cristallizzano un accordo fra Stati sulle politiche economiche che un intero continente si è impegnato a perseguire.

La interrompo perché le implicazioni mi sembrano rilevanti.

Sì, perché politiche economiche diverse da quelle riprodotte – bene o male – nei Trattati sono semplicemente fuori legge. Ed è questo che ha bloccato la capacità di risposta dell’Unione ad una crisi che ha abbracciato un intero continente, dal Consiglio europeo di Deauville (7-8 maggio 2010, ndr) in poi, e cioè da quando si è deciso che gli Stati potevano fallire. E ha fatto sì che la più grande economia del mondo, quella europea, facesse da tappo alla crescita mondiale. Che è poi quello che ci rimproverano da almeno 10 anni dall’altra parte dell’Atlantico.

Che cosa intende dire?

Che un osservatore come Edward Luttwak – che può piacere o non piacere, ma del quale non si dovrebbe mettere in discussione la capacità di esprimere posizioni interessanti – possa andare in televisione a dire che ogni trent’anni circa l’Europa impazzisce, e che tocca agli Usa rimettere a posto la situazione la dice lunga su come ci vedono dall’esterno. È che gli Usa in questo momento hanno altro da fare, sia in casa che nel Pacifico. E in questa fase l’Europa gli interessa solo in rapporto al teatro asiatico.

E così, tenacemente attaccata alle politiche economiche codificate nei Trattati, la Ue fa da tappo – lei ha detto – alla crescita mondiale. Può fare un esempio?

Guardi, l’ultimo libro di Carlo Cottarelli è molto interessante da questo punto di vista, non tanto per i contenuti che in fondo sono già noti agli addetti ai lavori, quanto per l’angolazione del suo discorso. E a volte le angolazioni sono più importanti dei contenuti. È interessante, ad esempio, come viene spiegata l’apparente fissazione sulle regole del 3% e del 60% inscritta in Maastricht. In genere su internet si trova l’apologo del funzionario che confessa la casualità di una scelta che sarebbe stata fatta in un’ora. In realtà si spiega bene che quei parametri sono stati fissati su una previsione di crescita del 5% nominale all’anno del tutto plausibile a fine anni 80 e inizio anni 90, da cui si sarebbe dovuto dedurre un prevedibile 2% di inflazione.

Il famoso obiettivo perseguito vanamente dalla Bce negli ultimi anni.

Proprio quello. Da qui l’idea per cui il deficit di bilancio non avrebbe dovuto essere superiore al 3% all’anno se non si voleva far crescere lo stock del debito di ciascuno Stato oltre il valore medio di quegli anni. Che era esattamente quel 60% di cui parlano gli allegati al TFUE. È tutto molto vero e corretto. Il punto, però, è che se vogliamo applicare, quasi trent’anni dopo, quella ricetta che abbiamo trasformato in un vincolo giuridico ci troviamo in una situazione paradossale.

Arrivati a questo punto, il rischio di essere tacciati di anti-europeismo è molto alto…

Non è una questione di europeismo o meno, si tratta di domande legittime, alla portata di chiunque: qual è l’economia europea che cresce oggi al ritmo del quinquennio 1988-1992? E cioè del 3% in termini reali? Ha senso governare un continente sulla base di un’osservazione empirica del 1990 trasformata in un obbligo giuridico che deve essere fatto rispettare? E infatti non è un caso che tutta la normativa che si è affastellata nel tempo, dal Patto di stabilità e crescita del 1997 al Fiscal compact del 2012, sia stata un tentativo di adattare quell’osservazione empirica al mutare degli eventi e dei cicli economici.

Con successo solo fino a un certo punto, si direbbe.

Per un po’ lo si è potuto fare. E lo si è fatto fino al sopravvenire della più grande crisi finanziaria dal ’29 in poi, che ha messo in luce le molte falle del sistema disegnato a Maastricht. Mi ripeterò, ma ha perfettamente ragione Giulio Tremonti a dire che il sistema di Maastricht è stato progettato postulando che una fase di stabilità e crescita dovesse durare per sempre. E questo è il suo vizio originario.

È l’unico vizio dei Trattati?

Sì e no. L’altro vizio è quello di avere voluto riprodurre una presunta teoria economica – ammesso che sia possibile parlare di teoria e non di un semplice  paradigma – in un atto normativo vincolante le politiche degli Stati nazionali. Il risultato è che i Trattati, e non la realtà, sono diventati il luogo di veridizione di quella dottrina economica.

La dottrina dell’ordoliberismo: dottrina economica che diviene dottrina politica.

Diciamo che era la dottrina esposta nella Stabilitätsgesetz tedesca del 1967, fondata sul “triangolo magico” dell’equilibrio tra base monetaria, tasso di cambio e spesa pubblica che aveva funzionato benissimo nella Germania del modello renano, producendo bassa inflazione e piena occupazione. Una dottrina che è stata adattata e riprodotta nei Trattati, e che avrebbe dovuto portare a un intero continente gli stessi benefici che aveva arrecato alla Germania Occidentale di quegli anni.

Ci lasci dire: a cominciare dalla vecchia Repubblica Democratica Tedesca.

Precisamente. In fin dei conti il regalo che Kohl voleva fare all’intera Europa in cambio del permesso alla riunificazione di quel disgraziato paese non era l’euro. Era l’estensione del modello tedesco di governo dell’economia a tutto il continente: e l’euro era solo uno degli strumenti necessari alla realizzazione di quel disegno. Kohl, in fondo, si sentiva un mago benigno.

E gli altri strumenti quali dovevano essere?

La Banca centrale indipendente e la disciplina di bilancio. La stessa cosa, grosso modo, è quanto sta scritto nel Washington Consensus del Fmi. La fiducia in quel modello era sconfinata, e soprattutto sproporzionata alla sua resa effettiva. Un classico caso di provincialismo culturale.

Dove sono cominciati i guai italiani?

In realtà non è che in quegli anni l’Italia, governata in modo completamente diverso, stesse poi peggio della Germania, almeno fino al divorzio Tesoro-Bankitalia. Anzi, in diversi settori, l’Italia di quegli anni è stata superiore alla Germania. Il punto è che, collocata in altri spazi e in altri contesti di ciclo, quella dottrina ha preso a produrre effetti imprevisti dai redattori del Trattato. Effetti che, va detto, fuori d’Europa, e cioè in Usa e Uk, erano stati ampiamente previsti: è la solita lotta tra pragmatismo e dogmatismo della cultura occidentale.

Ci dica qualcosa degli effetti imprevisti.

La codificazione di quella dottrina ha generato squilibri indesiderati, ma tutt’altro che sgraditi ad alcuni; questi squilibri hanno mutato i rapporti di forza all’interno del continente (la spaccatura tra paesi core e Piigs); e quindi hanno creato posizioni di vantaggio che sono state tenacemente difese nel nome del rispetto dei Trattati.

E in quello dell’europeismo come pensiero mainstream e fede politica.

Anche. Fatto sta che gli squilibri economici sono diventati subito squilibri politici. E alla fine hanno generato una diffusa insoddisfazione verso il modello di sviluppo europeo, che è quella che vediamo in giro.

Nessun complottismo, nessun Piano Funk?

No. Questo è un modo accattivante, ma troppo semplice di vedere le cose. Funziona benissimo sui social, meno se ci si ferma a riflettere. Certo, che un continente sia governato con lo spauracchio dell’azzardo morale è stato molto utile ad alcuni e un guaio per altri. Il risultato è stata bassa crescita a livello continentale, redistribuzione dal basso verso l’alto, e il monito del “sarebbe potuta andare peggio”.

Qual è stato il peccato originale?

Quello di architetti ingenui e incapaci, illuministi per difetto, ipnotizzati dalla bontà del progetto, fin troppo elementare, che avevano tracciato. E che poi hanno inutilmente complicato fino a renderlo incomprensibile, nello sforzo di farlo funzionare. Non puoi pensare che una teoria economica – e una politica economica fondata su quella teoria – messa in un atto normativo resti una teoria economica e basta. Diventa qualcos’altro.

Cosa ci lasciano 15 anni di dominio Merkel in Europa?

Quello che vediamo tutti. Ancor prima, però, 15 anni di Merkel hanno fatto dimenticare quell’Helmut Kohl che, in quegli stessi anni, andava ricordando in giro che sotto il suolo tedesco si aggirano demoni che è bene non risvegliare. Ma in fondo è normale.

Che cosa è normale?

È normale che sulla base di quelle premesse il risultato sia un vicolo cieco. È come scrivere in una legge che l’ornitorinco è un oviparo.

Cosa c’entra l’ornitorinco, adesso?

Sappiamo che l’ornitorinco è un simpatico animaletto australiano che depone uova e allatta i piccoli. È fatto apposta per mettere in crisi le leggi costruite sull’osservazione empirica. Se io prendo una legge del genere e pretendo di trasporla in un atto normativo come sono i Trattati, che impongono l’obbligo di rispettare e far rispettare quella cosiddetta legge empirica, alla fine mi trovo con i forestali o i Carabinieri che debbono andare a caccia di ornitorinchi per impedirgli di allattare dopo aver deposto le uova, se ho scritto che è un oviparo. Se invece scrivo che è un mammifero, devo impedirgli di deporre uova, perché un mammifero non può deporre uova. Ecco, in Europa si sta andando a caccia di ornitorinchi da almeno dieci anni. E non ci si accorge che è totalmente irrazionale.

È irrazionale contaminare i trattati con le leggi economiche, abbiamo capito bene?

Certo. È irrazionale perché leggi giuridiche – mi si passi l’espressione, che qui però ha senso – (i Trattati) e leggi economiche o empiriche (il triangolo magico) sono cose del tutto diverse ed hanno una logica diversa. Se le contamini, hai dei cortocircuiti e alla fine pretendi che sia la realtà a piegarsi alla teoria trasformata in legge. E non il contrario. La legge economica diventa vincolo giuridico e mette in crisi tutto; svuota di significato le rappresentanze parlamentari e trasforma le costituzioni nazionali.

Per capirci, come si è fatto con la modifica costituzionale dell’articolo 81 nel 2012, in 5 mesi sotto il governo Monti.

Esattamente. Da qui le crisi dei sistemi politici in tutta Europa, in Italia, come in Francia e Germania. E le violente trasformazioni dei sistemi istituzionali in cui quei sistemi politici si collocano. Ma anche questo è normale.

In che senso, questa volta?

Nel senso che se parti dal presupposto che il modello federale e presidenziale della Costituzione americana sia la forma di Stato migliore che possa essere pensata da mente umana, e lo applichi al Sudamerica, non è che dopo qualche anno ti trovi il Campidoglio nelle pampas. Ti trovi Perón prima, e l’aggancio al dollaro poi. E se questo succede, è Perón che è cattivo o sei cretino tu?

(Federico Ferraù)