Giancarlo Giorgetti nel suo intervento di venerdì alle commissioni Bilancio di Camera e Senato ha dato prova di ottimismo della volontà. Il ministro dell’Economia ha ragione nel mettere in guardia dal catastrofismo imperante: le cose vanno male, ma meno del previsto, se nulla cambia andranno meglio dalla primavera in poi, la struttura produttiva italiana dimostra di essere “resiliente” e i servizi (a cominciare dal turismo) hanno colmato il buco di domanda estera.



La grande incognita, tuttavia, resta la crisi energetica: la tregua di ottobre dovuta all’impatto combinato di temperature più alte e una crescita più bassa, sembra finita. Il Governo ha stanziato finora 42 miliardi (la metà a debito) e servirà solo per passare l’inverno. Ad aprile si farà il punto e per allora Giorgetti spera nell’Unione europea: l’ipotesi è destinare all’energia almeno una parte dei fondi destinati a Repower Eu, cioè alla transizione energetica. Dunque, per impedire quella recessione finora evitata, dovrà entrare in campo l’Ue. E dovrà farlo due volte perché il 2023 è l’anno chiave per trasformare in cantieri gli impegni del Pnrr. Verrà da qui quasi tutto lo sforzo per rilanciare gli investimenti ed evitare che l’inevitabile riduzione dei consumi provochi un crollo del prodotto lordo.



La task force europea è venuta a Roma e si è detta abbastanza ottimista, Giorgetti lo è ancora di più e assicura che tutti gli impegni presi saranno rispettati, quindi potrà essere erogata la terza tranche. Ma se guardiamo da vicino i fatti concreti e li mettiamo in rapporto con la gragnuola di dichiarazioni politiche, vien da sollevare più di qualche dubbio. Gli obiettivi che l’Italia è chiamata a centrare entro il 31 dicembre sono: 55 interventi, di cui 23 Riforme e 32 Investimenti: questi sono. Tutte le 6 missioni del piano sono coinvolte e misure rilevanti sono da avviare e concludere entro il mese, ad esempio le riforme del processo civile e penale, del quadro in materia di insolvenza, dell’amministrazione fiscale e della concorrenza, la riforma dei servizi idrici integrati; gli investimenti per l’alta velocità sulle linee Napoli-Bari e Palermo-Catania; il finanziamento di 300 borse di studio per giovani ricercatori; le riforme in tema di Centri per l’impiego e lotta al lavoro sommerso; la fornitura di servizi per la digitalizzazione degli ospedali e il codice degli appalti senza il quale nulla può partire.



Troppe procedure, lunghe attese per le autorizzazioni, intoppi burocratici, vincoli archeologici e ambientali, fanno slittare le opere. C’è poi l’aumento delle materie prime e in molti settori la difficoltà di approvvigionamento. Secondo Open, il 58,18% delle riforme è stato completato invece del 69,61% atteso, quanto agli investimenti, la stima è del 25,59% avviato rispetto all’obiettivo del 35,03%. Finora l’Italia ha ricevuto 66,9 miliardi di euro, a gennaio dovrebbero maturarne altri 19 miliardi, ma c’è chi sostiene che sono a rischio una quarantina di miliardi.

Il Presidente della Confindustria Bonomi, particolarmente critico sulla manovra del Governo perché “non c’è nulla per la crescita”, sostiene che la maggior parte dei fondi finora è stata utilizzata per coprire spese già previste, quindi non si tratta di investimenti aggiuntivi. All’interno del Governo sale un misto di allarme e scetticismo. Il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, nelle cui mani Giorgia Meloni ha messo la supervisione del Pnrr, teme che la spesa effettiva sarà lontana dai 22 miliardi preventivati e chiede “un confronto a livello europeo e nazionale”. Il ministro Gilberto Pichetto stima un onere aggiuntivo di 5 miliardi solo per l’ambiente e minaccia di tagliare i progetti. Il tam tam sulla revisione del piano è diventato ormai un rullo di tamburi. Che cosa si può rivedere? I costi in primo luogo e questo è già previsto, si tratta di considerare il quanto e il quando: con un’inflazione che si raffredda, ma non si ferma, il timing è essenziale.

Ma la vera richiesta che prende corpo, riguarda i tempi di realizzazione se non addirittura gli stessi progetti. È lapalissiano che la guerra e la crisi impongano di ridurne alcuni e aumentarne altri. Ciò richiede una seria analisi delle “circostanze oggettive che impediscono il raggiungimento dei traguardi e degli obiettivi” e una conseguente spiegazione dei cambiamenti previsti, sottolinea l’Ue. Il fattore tempo, invece, è la vera novità del piano: le opere vanno completate entro scadenze precise, basta con le lungaggini e con i rinvii. Non rispettare questo criterio fondamentale sarebbe catastrofico. Si tratta di una vera rivoluzione in Italia per le opere pubbliche che si trascinano per lustri con continuo aumento dei costi finali. Si può realisticamente vedere, caso per caso, che cosa è davvero realizzabile entro il 2026, tuttavia rimettere in discussione il nuovo paradigma significa non solo tornare al passato, ma dimostrare che l’Italia non è affidabile, vuol dire alimentare il pregiudizio su un Paese impossibile dove non si può fare nulla di moderno e razionale.

In passato l’Italia ha segnato veri e propri record (si pensi all’Autostrada del sole o all’alta velocità Roma-Firenze), poi negli ultimi trent’anni ha vinto la stagnante palude. Tra ritardi, traccheggiamenti, polemiche e divisioni politiche, il rischio adesso è di finire risucchiati dalle sabbie mobili.

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