Macron ha innalzato la bandiera della force de frappe e con essa ha innalzato la Francia a protettrice nucleare di un’Europa che potrebbe far a meno della Nato solo se contribuisse finanziariamente alla potenza dell’ultimo impero europeo. Esso possiede certamente la diplomazia più intelligente del mondo, con una vocazione alla mediazione tra potenze – che trova in Africa e nel Grande Medio Oriente in questi anni la sua più notevole implementazione –, ma che non può certo proporsi come centro militare europeo in sostituzione del rapporto transatlantico ossia la Nato (di qui la domanda: forse altro non è Macron che un’imitazione synthétique di Charles De Gaulle?). Ed è pur vero che l’Île-de-France è il cuore pulsante non solo della Francia per Pil e occupazione e innovazione, ma anche dell’Europa dal tempo dei Capetingi. Ma è altrettanto vero che la politica del presidente francese è scossa dall’interno da una serie di frane ininterrotte.
La prima viene dal suo gruppo parlamentare, che sfiora ormai – senza il soccorso di Bayrou e dei suoi centristi – la soglia della perdita della maggioranza parlamentare. E non si tratta che dell’inizio di una crisi politica profonda, come dimostreranno le prossime elezioni municipali in cui, anche dopo il ritiro di Griveaux, competeranno l’un contro l’altro armato esponenti politici appartenenti tutti alla stessa coalizione macronista, un “quasi partito” che, come dimostra Jerome Saint-Marie nel suo bel libro Bloc contre bloc, rappresenta le élites francesi sia come reddito, sia come istruzione e che ha creato di fatto la divisione sociale e politica della Francia più profonda dai tempi della crisi della Quarta Repubblica.
Ciò è dimostrato dall’imponente serie di manifestazioni operaie – ferrovieri in primis – e delle classi medie e delle ballerine dell’Opera e dei funzionari statali che segnano un evento straordinario nella storia europea e non solo francese: movimenti collettivi che seguono alle jacqueries dei gilets jaunes, in un’impressionante serie di mobilitazioni che saranno studiate come furono quelle analizzate da Karl Marx ne Le lotte di classe in Francia e ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (non a caso citate da tutti gli studiosi non solo francesi delle mobilitazioni sopra evocate).
Macron sta innalzando la bandiera atomica, ma sta ammainando quella della sua prossima riconferma alla presidenza e questo espone la Francia – divisa tra neo-liberismo macronista, destra social-nazionalista lepeniana, sinistra classista di massa de La France Insoumise di Mélenchon – alla perdita di ogni influenza geopolitica. Bell’effetto controintuitivo, non c’è che dire! Una spaccatura più profonda di quella che aprì la via al Generale De Gaulle! Il problema è che De Gaulle lasciò il potere prima dei trattati di Maastricht e ben prima dell’ordoliberismus eletto a governo economico dall’alto in una Europa senza Costituzione e governata da trattati interstatali (il Mes, ecc.) e da sentenze della Corte di giustizia europea.
Il disordine regna sovrano in Francia. E, come se non bastasse, anche il cuore economico europeo – ossia la Germania – è in fibrillazione. Per la prima volta nella storia il centro cristiano tedesco vede il ritorno nelle sue fila di un capo politico che già ne fu dirigente, Friedrich Merz, ma il quale, in competizione con Angela Merkel – perseguendo di fatto una svolta a destra della Cdu (su posizioni affini alla Csu) – dopo aver abbandonato il partito e divenendo un importante manager finanziario, si appresta a sfidare l’establishment merkeliano e a ritornare nel suo partito di un tempo.
Un esponente della finanza muove alla conquista di un partito tedesco. Ciò non era mai accaduto nella vita politica tedesca, dove i poteri situazionali di fatto condizionavano, ma non perseguivano der Weg zur Macht (la via al potere) nel sistema della macchina partitica. Un evento storico che segna un cambiamento di passo nella vita politica tedesca. Non a caso essa avviene contestualmente alla sconfessione politica e governativa di Annegret Kramp-Karrenbauer, dopo la sconfitta del Centro in Turingia e alle dimissioni del Governo durato un giorno tra Cdu e Alternative für Deutschland. La delegittimazione di colei che la Merkel aveva designato come sua erede è stata tutta politica. L’erede incompiuta è stata sconfessata dalla Cdu del Land e poi dalla cancelliera che non voleva ciò che AKK invece voleva: nuove elezioni, come se non sapesse ch’era previsto dagli exit pool un ulteriore calo elettorale di dieci punti.
Il centro cattolico e protestante tedesco trema e quindi trema tutta l’Europa. Pensiamo a ciò che abbiamo detto della Francia e guardiamo alla Spagna, dove un Governo sembra nuovamente difficile, fragile, diviso e rivelatore della faglia sociale e della frammentazione partitica provocata dal governo dall’alto euro-tecnocratico. Esso non ha fatto che scatenare i conflitti di potenza nell’ombra, non li ha certo soppressi (come dimostrò la tragedia balcanica) e per questo sta alimentando tanto le destre quanto l’anti-atlantismo nonché la Brexit. Un vulnus forse insuperabile: la fine possibile del disegno funzionalista che diede vita all’Unione economica europea. Forse non dell’Europa confederalmente unita.