“L’Unione Europea deve imparare ad usare il linguaggio del potere”. Questa è la lapidaria e volitiva affermazione di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, a commento della cosiddetta “bussola strategica” dell’Unione Europea approvata lo scorso 21 marzo.
Parole ufficiali, forti, pronunciate in mezzo alla crisi più grave che si sia mai vista in Europa dalla fine della Seconda guerra, che sottolineano, o dovrebbero sottolineare, un cambiamento di paradigma nell’azione dell’Ue, proiettata verso una politica di potenza, per lo meno su scala regionale, in un mondo caotico. Crisi molteplici che riportano il vecchio continente al centro dello scacchiere mondiale.
Nel documento approvato, dall’ambizioso e prolisso titolo “Per un’Unione europea che protegge i suoi cittadini, i suoi valori e i suoi interessi e contribuisce alla pace e alla sicurezza internazionali”, si elencano vari obiettivi. Il più importante, però, è rappresentato dalla volontà di costituire entro il 2025 una forza modulare di 5mila militari di pronta proiezione.
A dare una spinta anche emotiva ai paesi dell’Ue verso la creazione di una difesa comune, perno di una identità strategica, ha influito senza dubbio il modo brutale con cui è stata scritta la parola fine alla missione Nato in Afghanistan tra il maggio e l’agosto del 2021.
A seguito dell’addio a Kabul, poco dopo il 30 agosto Josep Borrell, in un’intervista al Corriere della Sera rilanciata dal New York Times, metteva l’attenzione della necessità per l’Europa di dotarsi di “una Initial Entry Force che possa agire nelle emergenze. La Ue deve essere in grado di intervenire per proteggere i propri interessi quando gli americani non vogliono essere coinvolti”.
Ad aumentare le frizioni tra partner europei e Stati Uniti, avveniva a novembre dello scorso anno anche un altro episodio, lo sgarbo australiano alla Francia riguardo la fornitura di dodici sottomarini. Da notare che il benservito alla partnership con Parigi avveniva in conseguenza del lancio della nuova alleanza per la difesa denominata Aukus per far fronte alle crescenti tensioni strategiche tra Stati Uniti e Cina nel Pacifico.
E così siamo arrivati al centro del problema della difesa europea. Tre sono i prerequisiti perché si concretizzi il passo verso la loro realizzazione. L’esistenza della volontà politica, una visione strategica comune ed un piano d’azione. Se questo avvenisse, l’Europa finalmente starebbe per fare un salto di qualità fondando la sua esistenza su di una sovranità piena. Ma è così?
Dubbi e scetticismi accompagnano la lettura del documento. A sfavore giocano le esperienze passate. Tutti questi impegni sono appunto rimasti desideri fino alla constatazione amara messa nero su bianco dall’Agenzia europea per la difesa (Eda – European Defense Agency), quando rileva che ad oggi l’Unione non dispone delle capacità militari per soddisfare le sue ambizioni.
La necessità di dotarsi da parte dell’Ue di un propria difesa comune era ben presente fin dalla fondazione e infatti si ritrova nell’articolo 42 del Trattato sull’Unione Europea, che prevede una politica di difesa comune ed un suo progressivo rafforzamento. Ma questo intento si muove in un sentiero stretto tra due pareti di roccia ripide, la volontà dei singoli Stati nazionali e l’esistenza della Nato, alleanza militare dove Washington gioca la parte del leone.
Il fatto, primo vincolo, è che lo Stato nazionale nasce assieme al monopolio della violenza e in relazione stretta con gli altri Stati. La difesa e la politica estera sono lo Stato nazionale, lo costituiscono, non rappresentano un attributo facoltativo. È chiaro che ogni cedimento di sovranità reale in questo campo è visto con preoccupazione dalle capitali europee, inoltre difficilissimo risulta accordare le diverse sensibilità nazionali nei diversi momenti storici, e infatti una difesa europea che poteva andar bene alla Francia nel 1950, non era più possibile nel 1954.
La seconda realtà da tener presente è la Nato, realtà che comporta elementi con cui è necessario confrontarsi senza nascondersi dietro un dito. L’alleanza è sotto il segno degli Stati Uniti, loro è il massimo impegno economico e militare; per di più, fanno parte di essa Stati europei con peso politico e militare ben diverso e con interessi non omogenei, alcuni come la Gran Bretagna non più nella Ue, mentre altri paesi dell’Ue come l’Austria non fanno parte della Nato. Quindi, alleanza sì, ma non a trazione europea.
Ora se la prima costrizione rappresentata dalla statualità non ha il valore di un limite definito e invalicabile, il secondo argine ha una consistenza diversa. La necessità politica della complementarietà tra Nato e Ue, di non duplicare le forze, è stata ribadita più volte dai vertici Nato, compreso l’attuale segretario generale Jens Stoltenberg. E tutte le dichiarazioni ricalcano le “tre D” (no decoupling, no duplication, non discrimination) elencate da Madeleine Albright nel 1998. Insomma la Nato vede la difesa europea accettabile solo se lascia la definizione delle operazioni militari ed il comando all’Alleanza.
Per di più la Nato è in continua trasformazione, processo che anche oggi avviene sotto i nostri occhi nella guerra in Ucraina. Nel corso degli anni è passata da un concetto limitato con al centro la difesa degli alleati nello spazio europeo, ad un concetto strategico allargato che la vuole vedere impegnata contro eventuali minacce – i possibili competitor russo-cinesi – in teatri non europei.
Si leggano per giunta – a riprova della continuo processo di cambiamento dell’organizzazione – le parole recenti del segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin secondo cui la Russia dovrebbe essere “weakened to the point where it can’t do things like invade Ukraine”, dette dopo la visita lampo a Kiev il 24 aprile. E questo è un punto dirimente nei rapporti tra Usa, Nato e Unione Europea, perché coinvolge, e forza, anche la concezione del diritto internazionale e quindi il ruolo dell’Onu, entrambi invece centrali per l’Ue e la sua visione multilaterale dell’ordine internazionale, come ben messo in risalto su queste pagine da Pasquale De Sena. L’allargamento del concetto strategico rappresenta non solo un cambiamento della concezione iniziale di sicurezza, ma comporta conseguenze precise per la politica estera sia dei singoli Stati europei che per la stessa Unione Europea.
Il caso dell’Ucraina è sotto gli occhi di tutti, qui i nodi dei rapporti tra Stati Uniti, singoli Stati europei Ue, Gran Bretagna, Unione Europea, sono venuti al pettine. Qui si sono confrontate due politiche estere divergenti, ma in modo implicito, che alla fine hanno prodotto una situazione conflittuale, risolta dall’attore con più carte in mano, Washington, che ha agito la Nato, mettendo a nudo il fallimento dell’Europa come entità sovrana capace di iniziativa politica autonoma in un’area certamente di sua competenza e interesse. Totalmente assente una politica estera dell’Unione Europea nei confronti della Russia, la Germania ne ha preso il posto a modo suo. Da una parte ha cercato di costruire buoni rapporti con l’ex Unione Sovietica attraverso legami economici intessuti secondo la strategia “Wandel durch Handel” (cambiamento attraverso il commercio, ndr), perseguendo una politica estera all’insegna degli interessi economici e non toccando nessuna questione di sicurezza.
Di contro, si costruiva un’altra iniziativa, tutta centrata su motivi geopolitici e di sicurezza, che univa Stati Uniti, Gran Bretagna ma anche Canada, e successivamente Paesi baltici, Polonia, Romania; iniziativa che nella Nato ha il suo braccio operativo.
Ora non è importante, alla luce degli avvenimenti, dire chi avesse torto e chi ragione; il dato di fatto è mostrare la contraddizione palese tra queste due politiche. Ecco che salta agli occhi l’assenza dell’Ue, la divisione dei Paesi membri, e la contraddizione tra una prospettiva di integrazione eurasiatica a trazione tedesca ed una prospettiva neo-atlantista che vede uniti Paesi ex sovietici dell’Unione e asse anglo-americano.
Il rischio per l’Unione Europea è enorme. Una visione del mondo multipolare come sempre ribadito in ogni documento richiede la costruzione di un polo sovrano autonomo, indipendente e dotato di proprie forze armate. Altrimenti saranno sempre altri a dettare la grand strategy dell’Europa.
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