Ancora una volta Mario Draghi ha preso in contropiede i partiti italiani, quelli della coalizione che lo sostiene, ma anche l’opposizione a cominciare da Fratelli d’Italia. Ha un senso del tempo da Jorginho, una velocità di reazione da Spinazzola, un anticipo alla Verratti. Lo dimostra il modo in cui ha colto al volo la crisi dell’Afghanistan per mettersi al centro della politica estera e per collocare la stessa politica estera nel cuore della politica italiana. 



Nel suo discorso d’insediamento il capo del governo aveva detto che avrebbe seguito due fari tradizionali, europeismo più atlantismo, e un suo convincimento personale ampiamente condiviso in Italia tra le forze moderate: il multilateralismo. Ma la débacle afghana ha rimesso tutto in discussione. L’alleanza atlantica è quanto meno da rifondare, l’Unione europea deve ancora dimostrare di non essere un gigante economico e un nano politico (come si diceva un tempo della Germania), quanto al multilateralismo è una sfida aperta alla deriva dell’America First inaugurata da Donald Trump e ribadita da Joe Biden. L’occasione per un Paese come l’Italia, che non è certo la mente e il braccio della geopolitica occidentale, è offerta dalla sua presidenza del G20 e Draghi non se l’è fatta sfuggire. 



A Giuseppe Conte che ripete il mantra “dialoghiamo con i talebani” il capo del governo ha risposto con i fatti: per dialogare bisogna innanzitutto sapere che cosa dire e poi bisogna dirlo da posizioni di forza, è l’abc della diplomazia e di qualsiasi politica estera. Su che cosa dire Draghi è stato chiaro: diritti umani, a cominciare dalle donne, lotta al terrorismo, nessun regime islamico integralista, un governo di unità nazionale (o meglio sarebbe dire tribale visto che il Paese è diviso in una ventina e passa di clan per lo più su base etnica). Quanto a chi deve dirlo, è chiaro che non può più essere l’America da sola, occorre un concerto delle potenze (per usare un’espressione ottocentesca) che oggi può essere trovato dentro il G20. Dunque coinvolgere la Russia (che ci sta, come ha detto il ministro degli esteri Lavrov nella sua visita di venerdì a Roma), la Cina che potrebbe starci anche se Xi Jinping con il quale Draghi dovrebbe parlare nei prossimi giorni farà il prezioso, l’India che ha un ruolo chiave, ma non vuole tra i piedi il Pakistan, la Turchia la quale chiede innanzitutto la garanzia che non sarà il maggior contenitore di rifugiati. Quanto agli Usa, temono di diventare il bersaglio di tutte le critiche, quindi Joe Biden è il più restio ad accettare che “la tomba di tutti gli imperi” venga regolata come i Paesi dell’Europa post-napoleonica al Congresso di Vienna. Il compito di Draghi, insomma, non è affatto facile, la sua mossa può fallire, intanto ha allineato il Governo attorno a questo obiettivo e ha lasciato Giorgia Meloni senza argomenti forti che non siano pura propaganda.



Difficile è anche il coté europeo. Qui Draghi ha preso la palla al balzo per mettere sul piatto alcune questioni chiave: da un lato i rifugiati e con essi la sicurezza europea più la politica per l’immigrazione, dall’altro la governance dell’Ue a cominciare dal superamento del voto all’unanimità per introdurre la maggioranza su decisioni che sono davvero strategiche. Che l’immigrazione debba essere gestita su base europea trova d’accordo Salvini e anche la Meloni. Lo stesso si può dire sul superamento di quel vincolo unanimistico vera palla al piede per una Unione tanto vasta. Tra le grandi cancellerie Draghi ha trovato il consenso di Angela Merkel e, sia pure a modo suo, di Emmanuel Macron. Ma attenzione che, nonostante sia fuori dalla Ue, Boris Johnson vuole giocare un ruolo attivo da potenza europea visto che si trova in rotta di collisione con Biden: la stessa idea di una Global Britannia diventa ancor più fantasiosa senza gli Stati Uniti. Inoltre, anche se la sua arena ideale resta il G7, Londra non rinuncia certo ai legami asiatici (a cominciare da quelli nel subcontinente indiano). 

Il multilateralismo è audace in una fase storica dominata dal ritorno delle nazioni, Draghi lo ha sperimentato in particolare durante la guida del Financial stability board, è vero che si trattava di economia, ma si era nel pieno della grande crisi e in ogni caso la politica e l’economia internazionale sono strettamente intrecciate. C’è una fetta di paesi dell’Ue, a cominciare da quelli dell’Est, che sta cavalcando il nazionalismo e ha addentellati consistenti anche in Italia. Viktor Orbàn ieri a Roma ha incontrato Giorgia Meloni e ha mandato un messaggio netto: “I rifugiati afghani non debbono pesare sulla Ue”. Una posizione dalla quale non si distanzia certo Salvini che con Orbàn continua a intrattenere solidi rapporti. Tuttavia è difficile per tutti chiudere le porte a chi fugge dal regime talebano, quanto a Lega e Fratelli d’Italia, come fanno a respingere la ricerca di una soluzione non solo europea, ma internazionale, senza la quale l’Afghanistan sarà uno “stato senza stato” ad alto potenziale destabilizzante?

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