Ormai non sembra più una novità: anche la giornata politica di ieri si è aperta con Matteo Renzi che guadagna la prima pagina di un quotidiano con un’intervista che spara a zero contro il governo di cui fa parte. Di questo passo, la faccenda finirà come la favola di Esopo “Al lupo al lupo”: a furia di gridare bugie, nessuno ti crederà più. Al momento, però, il problema di Renzi non è guadagnare credibilità, ma visibilità. Non avendo partito, giornali, poltrone in Rai e altri strapuntini da usare come merce di scambio, il senatore fiorentino deve trovare ogni giorno un appiglio per evitare che gli italiani si dimentichino di lui, lasciandolo con il suo triste 5% attribuitogli dai sondaggisti più generosi.
È il teatrino della politica, come lo chiamava Silvio Berlusconi. Uno attacca, gli altri fanno scudo. Ieri è toccato a Luigi Di Maio e Dario Franceschini difendere il presidente del Consiglio. L’avvertimento di Renzi non era poi troppo velato: l’ex segretario del Pd assicura che il governo e la sua maggioranza emergenziale eleggeranno il nuovo capo dello Stato e arriveranno alla fine della legislatura anche se non esclude aggiustamenti, come cambi di ministri o dello stesso premier. Eppure, Renzi è l’inventore del governo giallorosso, gli ha votato la fiducia, vi ha piazzato i suoi ministri, ha passato la notte in cui l’esecutivo ha varato la manovra a messaggiare con Teresa Bellanova per impartire ordini. E adesso lo ritroviamo a criticare il lungo articolato uscito da quella nottata burrascosa. Il “suo” governo, la “sua” manovra, le “sue” tasse che ora rinnega.
Sembra di essere tornati indietro di sei mesi, quando Giuseppe Conte era un pallido arbitro tra i litiganti Di Maio e Matteo Salvini. Lo schema si ripete: le forze della maggioranza devono tirare la corda allo stremo per guadagnare qualcosa, nessuno può mai essere lasciato tranquillo. Renzi è costretto a imitare Salvini, pur non essendo né a Palazzo Chigi né al Viminale: deve fare politica di lotta e di governo, deve sostenere Conte e al tempo stesso combatterlo. È l’unica arma che ha per potere contare qualcosa finché può, perché quando si andrà a votare i pericoli sono altissimi.
Fino a quel momento, Renzi tirerà la corda fino al limite della rottura, sapendo che gli alleati non vogliono neppure immaginare il rischio di fare cadere il Conte bis. Come si era capito fin dal giorno in cui lanciò la proposta di coalizzare Pd e M5s, il leader di Italia viva vuole fare pesare il più possibile il suo posizionamento come ago della bilancia. E vuole mettersi nelle condizioni di trattare al meglio ogni dossier, dalla manovra economica a qualunque tipo di nomine, fino alle candidature alle regionali. Se in Umbria Renzi si è tenuto furbescamente alla larga da comizi e foto di gruppo, in Emilia-Romagna non potrà evitare di metterci la faccia. Ma lo farà alle sue condizioni, mettendo zeppe e ostacoli e imponendo persone a lui gradite, ben sapendo che il Pd di Nicola Zingaretti non può permettersi un ulteriore passo falso nella più rossa delle Regioni rosse.
Già ora i sondaggi darebbero in svantaggio il governatore uscente, Stefano Bonaccini, rispetto alla candidata del centrodestra, Lucia Borgonzoni: ogni voto vale dunque oro per il Pd. Ma la gioiosa macchina da guerra rischia di sgretolarsi. Già il M5s, forse seguendo la stessa tattica renziana di far pesare oltremodo il proprio apporto elettorale, ha fatto sapere che non farà alleanze. Se anche Italia viva si dovesse presentare con una lista propria, per Zingaretti sarebbe meglio dichiararsi sconfitto in partenza. E così bisogna prepararsi a tre mesi di fuochi d’artificio tra Firenze e Bologna, con la bilancia del centrosinistra che oscilla attorno al suo ago.