Ma che cosa voleva rappresentare la seduta parlamentare di mercoledì 20 maggio 2020? Una grande sceneggiata, preparata da giorni, per far vendere un po’ di giornali, animare i dibattiti televisivi e far scoppiare di panzane i social di vario tipo? Per favore non parliamo più di politica e antipolitica, ma del tramonto, dell’inesistenza, dell’inconsistenza, dell’ininfluenza della politica, in Italia principalmente, ma con similitudini inquietanti in varie parti del mondo. Con l’Europa in testa tra 27 Paesi che, in ordine sparso, cercano di coprire un piccolo spazio per coltivare interessi particolari, non rivedendo mai il motore dominante del mercato finanziario, nelle sue regole da casinò, che nel giro di 20 anni è passato da un disastro all’altro. E mostrando sempre poco una vocazione di autentica comunità unitaria. Non è un caso che l’Unione europea sia meno apprezzata di un tempo anche recente.



Andiamo comunque con ordine. Per l’ennesima volta, contare quante volte è accaduto sta diventando impossibile, il leader di “Italia Viva”, Matteo Renzi, “l’enfant prodige del nuovismo perdente”, ridotto con una forza stimata al 3% in Parlamento, minaccia di toglier la fiducia al Governo giallo-rosso che ha creato lui, assicurandogli una risicata maggioranza. Il motivo della minaccia è fondato, reale ma allo stesso tempo impossibile. Occorre spiegarlo.



Renzi attacca il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, forse il peggior guardasigilli della storia italiana, che ha inanellato una serie di svarioni giuridici impensabili in una democrazia liberale. Ma Bonafede non si è limitato a questo: è intervenuto anche in diretta televisiva in una trasmissione per smentire Nino Di Matteo, magistrato del Csm e un protagonista della lotta alla mafia. Ancora adesso, tra la versione di Bonafede e quella di Di Matteo sull’offerta di un incarico al ministero, non è stato chiarito nulla. Nessuno ci ha capito niente.

Se tutto questo fosse avvenuto in un Paese di normale democrazia occidentale (compreso la diretta televisiva delle smentite) dove il ministro fa il ministro, il pubblico ministero fa solo quello e non si confonde con il giudice terzo, secondo le regole della reale separazione dei poteri, anche nel processo (come voleva Giovanni Falcone ad esempio), l’affare sarebbe stato chiuso con un “passo indietro” dei due infelici protagonisti su invito dei responsabili degli ordinamenti, repubblicani o regi democratici. Ma in Italia nessuno, anche tra chi ne ha la possibilità, diciamo di “moral suasion”, ha un evidente desiderio di intervenire, lasciando così il Paese nel più cupo e dannoso immobilismo.



Nello stesso tempo, compaiono due mozioni, una della destra, contro Bonafede, basata piuttosto su “ordine e legalità”, e una dei riformisti come Emma Bonino e Carlo Calenda, che attacca il giustizialismo di Bonafede e la mancanza di qualsiasi prospettiva di riforma della procedura penale soprattutto. Un invito al ministro a sfilarsi, senza provocare una crisi di governo. Anche se il gruppo cinquestelle strepita e fa di Bonafede la “bandiera” del grillismo militante.

Arriva Renzi e prende la parola in Senato. Nonostante le minacce, anche i bookmakers londinesi non accettano neppure scommesse sulla crisi o il voto contrario. È talmente chiara la sceneggiata che Renzi diventa, fin dalle prime battute, come il personaggio di una grande trasmissione di Renzo Arbore “Quelli della notte”, il Ferlini, comunista romagnolo dell’epoca, che ripeteva in modo monotono e ossessivo: “Non capisco, ma mi adeguo”.

Avrebbe potuto fare altrimenti: non minacciare prima e pronunciare poche parole in Senato sulle mozioni: non votiamo contro il Governo per stato di necessità. Si sarebbe comportato da grande politico, non da macchietta presenzialista.

In un Paese provato duramente dalla pandemia del coronavirus, dal dramma di oltre trentamila morti e dalle prospettive sanitarie ed economiche problematiche, una simile sceneggiata alimenta le proteste delle persone (ieri si sono allargate a Milano e a Roma) e allontana sempre di più i cittadini dalla politica. Se quindici giorni fa, solo un italiano su cinque si fidava dei politici, questa percentuale è destinata a peggiorare in breve tempo.

Anche perché, mentre c’è ancora chi aspetta i soldi della cassa integrazione, mentre i procedimenti per i prestiti bancari restano sempre problematici, si scopre finalmente il “decreto rilancio”, quello che si chiamava “aprile”. Ci si trova di fronte a un malloppo di 323 pagine per 266 articoli. Un contributo “devastante” per quanto riguarda la certezza del diritto e una serie di complicazioni che, secondo alcuni calcoli, richiederebbero dai 97 ai 110 decreti attuativi. Insomma, una giungla di norme.

Poi si comincia già a parlare più estesamente e più problematicamente degli aiuti e della condivisione europea dopo l’intervento congiunto di Merkel e Macron. Si preannuncia una trattativa complicata, anche quella che si basa sul “recovery fund” . I “parsimoniosi”, o gli europei “tirchi”, dettano già alcune condizioni e i mille miliardi su cui si basa Giuseppe Conte sono già diventati cinquecento.

È un respiro vedere che i numeri dei contagi stiano scendendo, che la curva della pandemia in Italia sia in ribasso e c’è chi spera proprio nella riapertura a giugno. Ma è evidente che emergono in modo più rilevante e duro le situazioni disperate di tanti che non hanno potuto svolgere alcuna attività per quasi tre mesi. Forse è proprio questo il momento di guardare una prospettiva di rilancio reale, evitando sceneggiate e contorsioni che possono creare rancore e rabbia.

È in momenti come questi che una democrazia deve dimostrare la sua maturità, soprattutto evitando personalismi, interessi particolari e lobbistici. Se si continua in questo modo si rischia di iscriversi alla lista delle democrazie ciniche, quelle che poi franano lasciando spazio a pericolose avventure. È una strada da non rischiare.