Il 21 settembre – sulla base dei risultati del referendum nazionale e delle elezioni regionali al nord, al centro e al sud d’Italia – ci sarà un bilancio dell’alleanza giallo-rossa e nel Pd Stefano Bonaccini e nel M5s Davide Casaleggio prefigurano una resa dei conti contro l’asse Grillo-Zingaretti.

Per quanto riguarda le Regioni la sinistra italiana sembra in affanno proprio nelle tradizionali “roccaforti rosse”: Toscana e Marche. Nelle Regioni con il centro-destra uscente invece non c’è dubbio sulla riconferma di Toti e Zaia. In sostanza, in cinque anni all’opposizione in quelle regioni il Pd sembra aver fatto scena muta, mentre in quelle in cui ha governato è sulla difensiva.



Sul piano nazionale tutti i sondaggi nel corso dell’esperienza giallo-rossa continuano a dare in netto vantaggio il centro-destra. Eppure si tratta di una coalizione con non poche criticità. Silvio Berlusconi ha da tempo assunto un ruolo di “padre nobile” con un partito in declino e Matteo Salvini non è più in primo piano sulla scena politica, anzi è insidiato nella Lega da Zaia e nella coalizione da FdI. A sua volta la Meloni, per quanto in crescita, non è certo percepita come “statista”.



Il malessere della sinistra ha evidentemente cause interne. Siamo cioè di fronte a tre partiti: una “casa madre” con due partiti nati da scissioni prima sulla sinistra (LeU) e poi sulla destra (Iv). Nella Prima Repubblica le scissioni provocavano crisi di governo e diversa collocazione parlamentare e così anche nella Seconda tra Bertinotti e Cossutta o tra Alfano e Berlusconi.

Oggi abbiamo un caso unico nell’Italia repubblicana in cui c’è una scissione senza provocare crisi di governo con Zingaretti e Renzi che rimangono imperturbabili insieme e il premier anche: di fatto abbiamo un Conte III dopo il bipartito M5s-Lega di destra, il tripartito M5s-Pd-LeU di sinistra e un quadripartito M5s-Pd-LeU-Iv di centro-sinistra.



La storia della sinistra italiana in questi ultimi anni appare quella di segretari del Pd (prima Bersani con D’Alema e poi Renzi) che escono dal partito perché non si sentono garantiti sui posti dai propri successori e che ora – tutti e tre – si trovano però uniti al potere proprio nella scelta più controversa che è l’alleanza con il movimento fondato da Beppe Grillo, che ha governato con la Lega. La sinistra per fare il governo ha dovuto adottare l’eredità prima avversata dal reddito di cittadinanza al taglio dei parlamentari. Tutti e tre i partiti temendo vistosamente elezioni anticipate appaiono quindi con scarso potere contrattuale di fronte al M5s.

In particolare sul taglio dei parlamentari il Pd di Zingaretti, dopo aver votato tre volte contro bollandolo come “pessima riforma che fa molto male alla democrazia” e “parte di un disegno pericoloso”, ha poi votato a favore in quanto condizione pregiudiziale dei grillini per fare il governo sulla base però dell’impegno di approvare prima la nuova legge elettorale.

Mancato il varo della legge, Zingaretti ha ripiegato su almeno l’approvazione in un ramo del Parlamento, poi almeno da parte della Commissione parlamentare, che però rappresenta un “contentino”: in quanto approvata senza i voti di Iv e LeU, non ha una maggioranza parlamentare. E infatti il giorno dopo Bonaccini si è candidato contro Zingaretti in nome della sua capacità di riassorbire le scissioni di Renzi e Bersani.

Anche sulla politica economica abbiamo il M5s che fa i capricci sull’utilizzo del Mes in un momento tragico per l’Italia, ma soprattutto il governo sembra senza bussola di fronte al Recovery fund.
Conte ha incaricato Colao di fare un programma e poi lo ha cacciato via e cestinato il lavoro perché con progetti di modernizzazione infrastrutturale sgraditi al M5s. Quindi il premier ha messo in scena gli Stati generali senza risultato da conservare tanto che alla fine si è dato vita a un comitato presieduto dal ministro Amendola, che ha cercato di mettere insieme progetti rovistando tra i 600 che in questi ultimi anni si sono accumulati nei cassetti ministeriali. L’idea era quella di presentarli a ottobre per ottenere un anticipo del 10% entro l’anno. Merkel e Macron hanno però mandato Gentiloni a spiegare al Parlamento che non è possibile, che i soldi arriveranno nel 2021 e che, soprattutto, bisogna fare “progetti di riforme e investimenti” e non “catalogo di spese”. Quindi anche Mattarella ha messo in guardia dal proseguire sulla via dei bonus.

Ora il governo è alle prese con il “rifare i compiti a casa”: ha approvato generiche “linee guida” con un elenco di titoli rinviando i progetti a gennaio. Con il Pd privo di forza deterrente, l’unico contrasto ai pregiudizi del M5s – dal Mes al Recovery fund – è rappresentato dalla pressione esercitata su Conte da Quirinale e Bruxelles. In sostanza l’Italia è già all’ombra di una “troika” di Bruxelles, dove con l’ultimo rimpasto della Commissione è cresciuto il ruolo del vicepresidente “rigorista” Dombrovskis come “vigilante” sui progetti per il Recovery fund.

In tutto questo i tre partiti della sinistra appaiono in affanno e alla rincorsa dei Cinquestelle e non certo forza trainante del governo. E’ per questo che cresce una criticità nell’elettorato di sinistra che vede il partito guida – il Pd di Zingaretti – che per continuare a governare con le varie fazioni dei Cinquestelle in lotta fra loro di fronte a mutamenti della Costituzione chiama riformismo il qualunquismo, in politica economica confonde deficit spending con helicopter money ovvero John Maynard Keynes con Achille Lauro e in politica estera, mentre drammatizza il voto Usa e tifa per Biden, propone “alleanza strategica” a Conte e Di Maio schierati con Trump.