Apriamo, apriamo: dalle piazze in tumulto si leva una sola voce (quella di chi è davvero con l’acqua alla gola, non degli agit-prop). Ma quando aprire e soprattutto come? Sul quando Mario Draghi è stato vago nella conferenza stampa di giovedì scorso, sul come si discuterà la prossima settimana in Consiglio dei ministri alla luce delle cifre che il ministro dell’Economia Daniele Franco scriverà nelle caselle del Documento di economia e finanza.
I dati sono importanti anche per quel che riguarda la fine del lockdown a chiazze. Nel Regno Unito il 50% della popolazione è stata vaccinata con almeno una dose e ci sono 20 morti al giorno; Boris Johnson ha detto che si riapre a giugno; Israele ha il 55% di vaccinati e 10 morti quotidiani, ma i ristoranti al chiuso riaprono a maggio; appena il 12% degli italiani ha ricevuto un vaccino e i morti sono arrivati a 460 venerdì scorso; la legge dei numeri, dunque, parla chiaro, il Governo si è dato l’obiettivo di 500mila dosi al giorno, per ora siamo a quasi 300mila.
Il prossimo Def offrirà la cornice dentro la quale saranno iscritte le nuove misure di sostegno ai redditi per tamponare l’impatto della pandemia. Draghi ha detto che il prossimo scostamento di bilancio sarà superiore a quello precedente che ammontava a 32 miliardi di euro. Secondo le prime previsioni, si va dai 35 ai 40 miliardi, con un disavanzo che sale oltre i 10 punti di Pil e un debito che sfonderà il 158% che era stato scritto l’anno scorso sulla nota di aggiornamento al Def. Debito buono o cattivo? La distinzione perde significato se si è costretti a inseguire l’emergenza. Sarà debito assistenziale, anche se da molte parti s’è fatta strada la consapevolezza che il sistema dei ristori non può essere replicato e la rincorsa ai sostegni è destinata a non avere mai fine e a non essere mai sufficiente. Che fare? Non è assolutamente chiaro, ma il Governo Draghi, chiamato a innovare, si sta rompendo la testa per trovare dei mezzi più efficaci e delle strade meno tortuose.
Nell’audizione al Senato Francesca Mariotti, direttore generale della Confindustria, ha proposto di seguire il modello tedesco basato sui costi fissi che consenta a una grande platea di aziende una copertura parziale dei costi, con un meccanismo semplice di verifica automatica. Inoltre, gli industriali privati vogliono che si passi da prestiti bancari (sono ormai 175 miliardi di finanziamenti garantiti) a stanziamenti diretti per fornire liquidità e capitale. È questo un passaggio chiave non semplice da affrontare, ma sarebbe un ponte tra sussidi e ripresa, un modo per rispondere alla questione su come ripartire.
Altrettanto strategico quanto difficile è il dossier lavoro. Il blocco dei licenziamenti sarà prorogato, ma quanto ancora potrà durare, fino a ottobre come chiedono i sindacati e poi? In un anno sono stati persi 945mila posti di lavoro, per lo più a tempo determinato. Un liberi tutti sarebbe catastrofico, il Governo ha detto che vuole procedere in modo selettivo, ma senza una riforma degli ammortizzatori sociali non sarà possibile introdurre la flessibilità della quale c’è bisogno ancor più perché la ripresa sarà accompagnata da una vasta ristrutturazione destinata a coinvolgere sia la manifattura, sia i servizi.
Il Governo dovrà anche varare il Recovery plan riveduto e corretto da presentare a Bruxelles entro la fine del mese. Da qui dovrebbe arrivare un impulso all’economia pari a tre decimali di Pil, non molto, tuttavia l’eventuale anticipo pari a 27 miliardi circa potrebbe avviare nella seconda metà dell’anno il tanto atteso ciclo degli investimenti produttivi. In ogni caso le prospettive contenute con tutta probabilità nel prossimo Def non sono affatto positive. Il ministro Franco ha detto che è ormai acquisita una contrazione nel primo trimestre dell’anno. Per vedere un rimbalzo bisognerà aspettare la seconda metà del 2021 se la campagna vaccinale avrà successo e in ogni caso sarà un saltello, non il balzo che molti di aspettavano.
Il prodotto lordo crescerà non del 6% come previsto precedentemente, ma del 4% (l’anno scorso la caduta ha sfiorato i dieci punti percentuali). Il Pil del 2019 non sarà recuperato se non nel 2023, dunque siamo in una crisi peggiore di quella del 2008-2010 e la ripresa sarà lenta, non c’è nessuna molla pronta a scattare se non come al solito quella dell’export, ma siamo estremamente dipendenti in prima istanza dalla congiuntura tedesca e poi dall’Asia, anche se la “Via della seta” sta diventando lenta e difficile per motivi prevalentemente politici. Il prossimo Consiglio dei ministri sarà, dunque, fondamentale per capire se ci sarà una svolta oppure se continueremo a camminare con lo stesso passo lento e incerto.
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