Paradossalmente proprio Giuseppe Conte sta diventando un fattore di destabilizzazione per il suo stesso governo. Forse il premier ha messo troppa carne al fuoco. In primo luogo ha pensato di promuoversi da mediatore a vero e proprio leader decisionista (“Sono – si autoesalta – più duro di Craxi a Sigonella”) credendo di poter mettere gli alleati di fronte al “fatto compiuto” (Iva, F35, rapporti con Usa, ecc.).
In secondo luogo prevede per il suo prossimo futuro un ruolo come nuovo Prodi, premier di una coalizione di sinistra imperniata su Pd e M5s e con altre forze di sinistra e civiche.
In terzo luogo, anche se formalmente il 27 settembre su La Stampa ha sostenuto la rielezione di Mattarella, lo ha fatto però in modo tale da – è stato scritto – “promuovere la propria candidatura al Quirinale per interposta persona”.
E cioè abbiamo un premier che pensa di decidere senza aver prima acquisito il consenso degli alleati; che apre un conflitto interno al proprio partito cercando – come si è visto nella festa di Napoli – di scalzare il “capo politico”; che vuole emarginare un partito della coalizione come Italia viva di Matteo Renzi e che, infine, si considera candidato “naturale” alla Presidenza della Repubblica dove c’è Mattarella nonostante Pd e M5s siano favorevoli alla sua rielezione.
Da che cosa deriva tanta sicurezza nell’inquilino di Palazzo Chigi? Il suo portavoce ha dichiarato al Corriere della Sera che Conte è sicuro di “avere dietro M5s, gran parte del Pd, sindacati, Chiesa Cattolica ed Europa”.
È significativo che il portavoce di Conte ometta l’appoggio espresso da Donald Trump. La dichiarazione risale infatti ai giorni in cui il New York Times ha appena rivelato gli incontri italo-americani che il nostro premier aveva organizzato segretamente evitando le consuete vie diplomatiche.
La vicenda è particolarmente grave in quanto rischia di compromettere i rapporti nella maggioranza e mina l’autorità del premier. Conte ha cioè autorizzato un incontro, a Ferragosto, che nulla aveva a che fare con la sicurezza nazionale e che doveva rimanere segreto, tra i vertici dei servizi italiani (Dis, Aise, Aisi) e gli inviati di Trump che si occupano del Russiagate (il ministro della Giustizia William Barr e il procuratore John Durham). In particolare gli americani hanno visionato la documentazione italiana messa a loro disposizione dal nostro premier anche per indagare sul comportamento dei due predecessori di Conte e cioè verificare se nel biennio 2016-17 Matteo Renzi (con Marco Minniti che aveva la delega ai servizi) e poi Paolo Gentiloni avessero manovrato contro Trump circa il Russiagate.
Ora il problema di Conte che deve riferire al Comitato a presidenza leghista è che, da un lato, dalle indagini parlamentari di Washington – con Barr che è sull’orlo delle dimissioni – non venga resa pubblica la relazione del ministro della Giustizia sugli incontri a Roma e, dall’altro, non vi sia fuga di notizie dall’interno dei servizi italiani. Il portavoce di Conte nei giorni scorsi infatti – sempre dal Corriere – ha denunciato l’esistenza di “talpe” con “l’irritazione del presidente del Consiglio per giochi interni che ora non accetta più” e ha quindi minacciato che – dopo l’audizione al Copasir – “qualche testa possa saltare”.
Di fronte al fatto che Conte abbia permesso al ministro di Trump di effettuare controlli sui premier del Pd della passata legislatura, Nicola Zingaretti fa finta di nulla in quanto aggrappato alla speranza di tenere al potere il suo partito in Umbria ed Emilia con i voti dei 5 Stelle. È indubbio però che in questi giorni il governo stia dando segni di improvvisazione e sbandamento, in particolare nella definizione della manovra economica, che è diventata un happening, un’insalatiera di provvedimenti disordinati.
Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, infatti non è un economista. Nel Parlamento europeo – lontano dai riflettori mediatici – ha svolto abilmente un ruolo di mediazione politica. Ma come accademico è uno storico dell’Istituto Gramsci e i suoi testi più importanti sono quelli sul Pci di Togliatti e Berlinguer.
La manovra che si sta raffazzonando tra Pd e M5s è imperniata su lotta all’evasione e su “tassare i ricchi”: una politica economica da Pci-Cgil degli anni 70 che già all’epoca veniva contestata dalla stessa destra comunista di Giorgio Amendola (che irrideva: “E dove iniziano i ricchi?” nel senso che quello slogan contro “i ricchi” significava in concreto un nuovo attacco ai ceti medi) e da Giorgio Napolitano che, inascoltato, sollecitava invece un impegno per la riduzione del debito pubblico.
La lotta all’evasione è sacrosanta, ma se è alternativa ai tagli della spesa pubblica è ipocrisia. Lo stesso taglio dei parlamentari sembra enfatizzato per nascondere l’incapacità e la non volontà di operare tagli seri, mentre l’Eurozona ancora nel suo ultimo documento insiste sulla necessità della riduzione del debito pubblico italiano. Da Palazzo Chigi si sbandiera il taglio dei “costi della politica” come sostituto di una politica di effettivo risanamento (infatti la spending review è nuovamente annunciata, ma rinviata alle calende greche). La continuità tra Conte-Di Maio al governo con la Lega e poi con il Pd sembrano essere assistenzialismo e statalismo.
Si vedrà comunque presto se le ambizioni di Conte siano ben riposte. La manifestazione romana della Lega evidenzierà se con questo governo Matteo Salvini si stia sgonfiando o meno e, soprattutto, a fine mese con le elezioni in Umbria si verificherà in concreto se, come auspicato da Conte e Zingaretti, gli elettorati di Pd e M5s possano essere messi insieme in modo vincente.