“Il lavoro o la vita?”: attorno a questa domanda, partendo dalla quale si cercherà di delineare la possibilità di un lavoro sostenibile al centro di un nuovo paradigma di sviluppo capace di conciliare meglio tempi di lavoro e tempi di vita, ruota l’ultimo talk – in programma oggi al Meeting alle 19 – che chiude la serie di incontri su “Il lavoro che verrà”, promossi dalla Fondazione per la sussidiarietà.



Le transizioni digitale ed ecologica produrranno più benefici o più danni al mercato del lavoro? Giovani e donne non saranno più le fasce fragili del lavoro ma saranno il traino di una nuova occupazione? Che ruolo avrà l’uomo al lavoro in questo passaggio verso il futuro? Ne discutono Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat; Roberto Giacchi, amministratore delegato di ItaliaOnline; Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico; Marco Hannappel, presidente e amministratore delegato Philip Morris Italia; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Al professor Blangiardo abbiamo posto alcune domande per avere un po’ di numeri, trend e riflessioni utili a capire.



Meno di un mese fa lei ha ricordato che rispetto al periodo pre-pandemia sono stati persi 735mila posti di lavoro. Le previsioni sul Pil, intanto, continuano a essere viste al rialzo. Rischiamo una ripresa senza aumento dell’occupazione?

I dati mostrano chiaramente come lo scenario internazionale resti caratterizzato da un processo di ripresa economica solido, ma eterogeneo tra paesi. Tuttavia, la risalita dei contagi sta determinando un aumento dell’incertezza associata all’evoluzione dell’economia mondiale. Come sappiamo nel secondo trimestre il Pil italiano è cresciuto, in base alla nostra stima preliminare, del 2,7% in termini congiunturali, con un dinamismo più accentuato rispetto agli altri principali paesi europei. La variazione acquisita per il 2021 è +4,8%. Anche il tasso di occupazione è aumentato, di 0,7 punti percentuali, rispetto al trimestre precedente, mentre si sono ridotte sia la disoccupazione (-0,2 punti percentuali), scesa sotto il 10%, sia l’inattività (-0,7 punti percentuali).



Alla luce di questi numeri che scenario possiamo immaginare?

Lo scenario per i prossimi mesi mantiene un orientamento decisamente positivo anche per il mercato del lavoro. Tra aprile e giugno, la crescita del Pil si è accompagnata a una significativa ripresa della domanda di impiego da parte delle imprese. Il tasso destagionalizzato di posti vacanti ha segnato decisi rialzi nell’industria (+0,2 punti percentuali rispetto al primo trimestre) e nei servizi (+0.5 punti percentuali). Per entrambi i raggruppamenti i valori dell’indice sono superiori a quelli pre-crisi.

Guardando più al medio-lungo periodo, l’aumento dell’automazione, le transizioni digitale ed ecologica (vedasi impatto del piano di tagli CO2 della Ue sull’industria), c’è il rischio di continuare a vedere un andamento decrescente del numero di occupati?

Secondo le previsioni rilasciate dall’Istat a inizio giugno utilizzando il nostro modello macroeconometrico MeMo-It, nel 2021 si attende una crescita delle unità di lavoro (ULA) del 4,5%; una dinamica che, pur in parziale decelerazione, sembra destinata a proseguire anche nel 2022 (+4,1%). Il tasso di disoccupazione dovrebbe aumentare nel corso dell’anno (9,8%) per poi ridursi nel 2022 (9,6%). Allungando lo sguardo al medio-lungo periodo gli scenari prendono in considerazione diversi fattori che possono incidere sulla partecipazione al mercato del lavoro. Tutti abbiamo sentito gli economisti parlare dei nuovi lavori che le transizioni digitale ed ecologica offriranno alle generazioni future. Così come della sostituzione del lavoro dell’uomo con la robotizzazione di molti processi. Sono percorsi complessi che vanno accompagnati con attenzione: l’economia della conoscenza porterà benefici maggiori se sapremo investire di più in istruzione e in politiche attive per l’occupazione e la formazione permanente dei lavoratori.

In Italia sta crescendo il fenomeno dei working poors. C’è il rischio che il loro numero aumenti pensando alle trasformazioni che ci saranno nella nostra economia?

Questo rischio esiste indubbiamente, non soltanto nel nostro Paese. Come ho già avuto modo di osservare, il passaggio a nuovi modelli economici è lungo e incerto. Al momento va preso atto che la congiuntura da piena recovery non sta ancora cambiando la situazione salariale. Le retribuzioni contrattuali orarie nel primo trimestre si sono mantenute deboli (0,6% su base tendenziale). E nonostante il recente rinnovo di importanti contratti collettivi, le pressioni salariali restano modeste (l’incremento è stimato dall’Istat pari allo 0,6% nella media del 2021), sia perché parte degli aumenti retributivi recepiti negli accordi scatteranno dal prossimo anno, sia perché il numero di contratti da rinnovare è ancora alto: in giugno la quota di dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale si è attestata al 58,7%.

Il lavoro che verrà in Italia rischia di essere con sempre meno giovani. Lei ha recentemente spiegato che la loro “fuga” all’estero è motivata anche dai salari più bassi che percepiscono rispetto ai coetanei di altri Paesi europei. Il problema si risolve tagliando il costo del lavoro e dando così possibilità di avere buste paga più pesanti?

Bisogna investire nel lavoro. Lo stesso Papa Francesco lo ha ripetuto anche recentemente: bisogna sostenere il buon lavoro con stipendi adeguati. I nostri giovani che cercano un impiego all’estero, dopo essersi magari laureati a pieni voti in Italia, rappresentano una perdita secca per il Paese. Una perdita evitabile se il mercato del lavoro fosse più dinamico e capace di pagare bene le competenze.

Il Reddito di cittadinanza disincentiva la ricerca del lavoro e crea problemi a coprire certe posizioni lavorative, specie stagionali. È vero?

L’anno scorso i nuclei familiari percettori di almeno una mensilità di Reddito di cittadinanza sono stati circa 1,6 milioni, per 3,7 milioni di persone coinvolte, per un importo medio mensile di circa 530 euro. Nel 2020 il RdC ha erogato circa 7,2 miliardi, mentre con il Reddito di emergenza si è aggiunto un altro miliardo per aiutare 425mila nuclei familiari, che hanno percepito mediamente 550 euro al mese. In tutti i paesi Ocse esistono misure di contrasto alla povertà di carattere universalistico, il problema è come calibrare queste misure con complementari politiche per l’impiego. Non so fino a che punto il Reddito di cittadinanza disincentivi il lavoro stagionale, sicuramente in determinati contesti può anche essere successo, e su questo bisogna lavorare.

Quali soluzioni?

Sappiamo che il governo è impegnato su più fronti convergenti: la riforma degli ammortizzatori sociali, l’avvio dell’assegno unico universale e la cosiddetta revisione del Reddito di cittadinanza. Indubbiamente servono soluzioni di insieme capaci di ridurre le disfunzionalità che ogni strumento inevitabilmente porta con sé.

Secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, entro il 2035 potrebbero esserci in Italia poco più di 5 milioni di persone in meno in età lavorativa, come se sparissero tre grandi città come Roma, Milano e Napoli. Avremo un buco nell’occupazione? E in tal caso, è ancora possibile porvi rimedio? In che modo?

Quello che lei ha citato è uno scenario che noi demografi consideriamo come molto probabile coeteris paribus. La popolazione in età lavorativa si ridurrà fortemente con la semplice uscita delle generazioni dei baby boomers dalla vita attiva e l’ingresso di generazioni assai meno numerose. Ma non si tratta di un destino inevitabile: Paesi a noi vicini hanno dimostrato che le giuste politiche di sostegno della natalità possono produrre risultati importanti. Inoltre va ricordato che noi partiamo da un mercato del lavoro che già oggi è molto al di sotto del suo potenziale. Basta guardare ai tassi di occupazione femminili e ai Neet (giovani che non studiano né lavorano): siamo disallineati, in peggio, rispetto alla media Ue di quasi venti punti percentuali su entrambi i fronti. Questo vuol dire che i margini di recupero ci sono, anche a fronte di un cambiamento demografico come quello che va prospettandosi.

La pandemia non solo ha colpito duramente il mercato del lavoro, ma ha anche peggiorato un trend demografico molto negativo, aggravato da tassi di mortalità che non si vedevano dalla fine della guerra. Si può uscire da questa spirale? Intravvede segnali incoraggianti?

Ho detto in più occasioni che invertire le tendenze negative sul piano demografico si può e si deve fare. È impensabile dare per “normale” le 400mila nascite del 2020 – e quest’anno saranno ancor meno – in un Paese di 60 milioni di abitanti, con una popolazione che da quasi trent’anni presenta saldi naturali sempre più negativi. Occorre fare un salto di qualità, tanto negli interventi a sostegno delle famiglie con figli e nelle azioni di conciliazione tra genitorialità e lavoro, quanto nel clima culturale della nostra società. Occorre vedere nei figli un investimento di cui l’intera collettività deve farsi carico. La mia impressione è che, rispetto al passato, qualcosa stia faticosamente muovendosi, ma dobbiamo insistere in questa direzione. Ci sono Paesi europei, la Germania ad esempio, che hanno saputo invertire una tendenza regressiva simile alla nostra.

Dando uno sguardo più generale, possiamo dire che il peggio è passato?

Ci piacerebbe poterlo affermare con assoluta certezza, ma è chiaro che siamo ancora in corsa. È comunque importante, più che dirlo, crederlo fermamente e agire di conseguenza. Questo significa, da un lato, un impegno condiviso, a tutti i livelli, per riparare i danni e cogliere, perché no?, l’occasione di costruire un Paese migliore; dall’altro, la capacità di far tesoro dell’esperienza drammaticamente vissuta, così da attivare tutti quei comportamenti responsabili che possono aiutarci a non ripetere gli errori che abbiamo pagato così duramente.

(Marco Tedesco)