La riapertura delle attività produttive a seguito dell’allentamento delle misure di distanziamento adottate dal Governo nel periodo marzo-giugno del 2020 ha consentito di avviare un lento recupero della quota degli avviamenti lavorativi mensili e una formale riduzione delle perdite di posti di lavoro registrata nei mesi precedenti. L’aumento degli 83mila occupati in agosto rispetto al mese di luglio, segnalato nel bollettino Istat di ieri, prosegue in questa direzione. Accompagnato anche da un significativo aumento delle ore medie lavorate, per effetto della riduzione dell’utilizzo forzato delle casse integrazioni nel primo semestre dell’anno in corso.



Tuttavia, è bene ricordare che questi numeri, per la finalità di una corretta analisi dell’andamento del mercato del lavoro, continuano a essere viziati dalla prosecuzione parziale del blocco dei licenziamenti e dall’utilizzo delle casse integrazioni per poco meno di 2 milioni di lavoratori, che producono l’effetto di mantenere sostanzialmente inalterati, o persino di aumentare, il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, rinviando le potenziali dismissioni ai primi mesi del 2021. Con un impatto nel mercato del lavoro che rischia di diventare socialmente poco gestibile.



Di riflesso l’aumento degli occupati, soprattutto per la componente dei lavoratori autonomi, +67mila, consente di recuperare parzialmente una quota dei mancati avviamenti delle partite Iva e di lavori a tempo determinato dei mesi precedenti, e un’analoga ripresa degli occupati nella componente femminile e nelle fasce di età under 34 particolarmente colpite dalla riduzione delle nuove opportunità di lavoro nei mesi scorsi. L’aumento del numero degli occupati si riflette nella riduzione della quota delle persone in cerca di lavoro, -23mila, e soprattutto di quelle inattive, -65 mila, che nell’insieme hanno registrato una vertiginosa crescita dei numeri nel corso del primo semestre dell’anno.



La perdita di posti di lavoro rispetto all’agosto 2019 continua a rimanere consistente, -425mila, corrispondente a quella dei lavoratori a termine, con riflessi pesanti sulla classe di età più giovani under 34, -303mila, per la componente femminile del mercato del lavoro, -274mila, e per i lavoratori autonomi, -135mila.

Queste tendenze, unitamente all’anomala crescita dei contratti a tempo indeterminato derivante dal blocco dei licenziamenti, consentono di fare alcune valutazioni su quello che potrebbe accadere per i rimanenti mesi dell’anno, con la speranza che non si ripresenti l’esigenza di un ripristino delle misure di lockdown per motivi sanitari.

Nel breve periodo tutte le possibilità di recuperare ulteriormente i saldi occupazionali negativi, che si sono sinora registrati, è sostanzialmente affidata alla ripresa dei contratti a termine, stagionali, e delle nuove aperture delle partite Iva. Lo scenario non è esaltante, ma suggerisce in questa fase di consentire alle imprese di poter usufruire pienamente dei margini di flessibilità assicurati dalla sospensione degli effetti del Decreto dignità sull’utilizzo dei contratti a termine. Ma è quanto mai opportuno che il Governo e le parti sociali comincino seriamente a pensare come gestire in modo ragionevole il potenziale di dismissioni di personale che potrebbe verificarsi in conseguenza della cessazione del blocco dei licenziamenti.

Tutto questo dipenderà certamente anche dal grado di resilienza che le aziende e i settori avranno nel frattempo realizzato rispetto alle nuove dinamiche della domanda di prodotti servizi, con un impatto che sarà inevitabilmente differenziato in ragione delle specificità produttive, della dimensione delle aziende e delle realtà territoriali.

Sino a oggi le attenzioni, cosa del tutto comprensibile, si sono concentrate soprattutto sull’esigenza di tamponare con misure straordinarie, e con una massiccia immissione di sussidi di sostegno al reddito, le conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria. La tentazione di prolungare nel tempo questa fase sarà notevole e diffusa, ma comporterebbe costi elevati e soprattutto un ritardo nell’adeguamento delle organizzazioni del lavoro con un effetto di spiazzamento competitivo delle imprese. Mentre sarebbe doveroso attrezzare una rete di assistenza, con un concorso di risorse pubbliche e private e di servizi di sostegno per le persone e per le imprese, rivolti ad accompagnare una mobilità sostenibile dei lavoratori verso i nuovi fabbisogni lavorativi.

Allo stato attuale il tema, purtroppo, non viene adeguatamente affrontato, privilegiando le attenzioni sui sostegni al reddito e verso obiettivi, certamente importanti, come i rinnovi dei contratti di lavoro, ma gerarchicamente meno urgenti rispetto alle emergenze occupazionali che rischiano di produrre effetti drammatici sulle persone e nelle comunità locali.