Nel nostro Paese la notizia è passata inosservata, ma l’Eurogruppo della scorsa settimana ha ribadito l’impegno da parte dei Paesi membri a garantire una rapida attuazione delle nuove regole del Patto di stabilità e crescita, pur riconoscendo che questo comporterà tagli alla spesa pubblica e che l’economia europea è entrata nel 2024 indebolita. Secondo Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, «c’è il rischio di non interpretare in modo corretto i dati attuali e non vedere i segnali di una tempesta in arrivo».
Cosa intende dire?
Che ci sono dati che rasserenano l’orizzonte europeo di breve periodo, come i prezzi dell’energia in calo, il saldo della bilancia commerciale in miglioramento, il taglio dei tassi di interesse della Bce ormai vicino, lo spread rispetto ai Bund in calo per i titoli di stato di tutti gli altri Paesi membri. Tutto questo può essere come un fantastico sonnifero che non fa percepire quello cui andiamo incontro, ma gli elementi per intravvedere la tempesta in arrivo ci sono tutti.
Per esempio?
Basta pensare al fatto che la Bce ha tagliato le stime di crescita dell’Eurozona per il 2024 dallo 0,8% allo 0,6%, dopo che il 2023 si è chiuso a +0,5%. Se guardiamo alla Cina e agli Stati Uniti, che secondo le stime del Fondo monetario quest’anno cresceranno rispettivamente del 4,6% e del 2,1%, possiamo renderci conto di quale sia la situazione. Tutto sembra indicare che dovremmo fare quello che di solito si fa in mare quando si avvicina una tempesta, cioè il massimo sforzo per rafforzare lo scafo della nave: fuor di metafora, occorrono investimenti.
Infatti, il commissario agli Affari economici Gentiloni ha ricordato che l’Ue ha bisogno di una “enorme quantità di investimenti” solo per la sfida delle transizioni green e digitale, senza dimenticare la difesa.
Sono dichiarazioni in linea con quanto sostenuto recentemente da Mario Draghi. Il problema è che Gentiloni stesso ha aggiunto che sarà “davvero difficile” trovare un equilibrio che faccia in modo che “il tanto necessario aggiustamento fiscale” non porti “a un taglio degli investimenti”. Questo nonostante la prevista riduzione dei tassi di interesse, e quindi dei rendimenti dei titoli di stato, e la fine dei sostegni pubblici contro il caro energia lascino sulla carta agli Stati più spazio fiscale a disposizione. In buona sostanza, l’Ue ha deciso che in questo momento, malgrado l’evidente necessità di investimenti, occorre portare avanti la contrazione fiscale prevista, senza se e senza ma. E non è tutto, perché Gentiloni ha suggerito che la maggior parte degli investimenti necessari arriverà dal settore privato. Il che rappresenta una clamorosa cantonata.
Perché?
Dobbiamo ricordarci che gli investimenti privati scompaiono nei momenti di incertezza globale e che dispiegano il loro potenziale se accompagnati dai quelli pubblici. In altri termini, gli investimenti pubblici e privati non sono alternativi come sembra paventare la Commissione europea, bensì complementari, ma con un ruolo guida dei primi. A questo punto non ci resta che aspettare e sperare che non si manifesti una qualche sorpresa negativa sul fronte orientale o su quello occidentale, in particolare con l’appuntamento elettorale americano. L’Europa continua a perdere occasioni, opportunità, vede i mercati invasi da imprese di Stati che attuano politiche fiscali espansive, e così il suo patrimonio di potere economico e, dunque, politico continua a essere eroso. È sempre più vicino il rischio di diventare la Florida del mondo, dove verranno a vivere tutti i pensionati per godersi il sole, anziché un’area di opportunità, di progresso, di solidarietà per i più deboli.
Dunque quest’anno bisognerà tagliare la spesa pubblica e l’Italia dovrà farlo in modo massiccio, considerando che partiamo da un deficit/Pil al 7,2% a fine 2023 e dobbiamo arrivare al 4,3%.
È evidente che non ci sarà una stretta del 2,9%. Ormai sappiamo che a Bruxelles interessa solo che nel Def sia confermato il ritorno sotto il 3% nell’arco di un triennio, dunque ci potrà bastare una discesa intorno all’1,5% per spalmare il resto nel 2025 e 2026, anni in cui ancora potremo avere una certa flessibilità rispetto alle più stringenti regole del Patto di stabilità e crescita in base alle quali un deficit/Pil al 3% non sarà più sufficiente. Ciò non toglie che si tratterà comunque di una stretta fiscale in un momento di gravissima difficoltà, che contribuirà ad abbassare le previsioni di crescita per il 2025. Rimaniamo in una trappola da cui nessuno sembra voler uscire. Nessuno sembra voler mostrare concretamente che gli investimenti pubblici fatti bene, a differenza dell’austerità, abbattono il debito pubblico su Pil.
A proposito di crescita, l’Italia non va poi così male rispetto al resto d’Europa…
Magra consolazione. Secondo la Banca d’Italia, il 2024 si chiuderà con un Pil a +0,6%, il che vuol dire che la zona più dinamica del nostro Paese ristretta a due-tre regioni crescerà a tassi superiori all’1%, mentre l’area che più ha bisogno della presenza dello Stato a sostegno sarà stagnante o addirittura in recessione.
Lei ha parlato di rischi all’orizzonte, eppure, come diceva all’inizio, dai mercati, sia a livello di spread che di listini azionari, non sembrano arrivare allarmi.
C’è il rischio di scambiare l’attuale situazione degli spread come una promozione da parte dei mercati dell’austerità. In realtà, i mercati stanno prezzando l’accordo politico che c’è stato alla fine dell’anno scorso perché significa stabilità nel breve termine. Se in Europa si trovasse un accordo politico per attuare una politica fiscale espansiva, simile a quella degli Stati Uniti, i listini azionari europei vivrebbero un rally ancora più forte dell’attuale, perché oltre alla stabilità prezzerebbero una crescita economica raggiunta tramite gli investimenti pubblici.
(Lorenzo Torrisi)
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