La scorsa settimana è iniziata con il seminario annuale della Banca centrale europea a Sintra in Portogallo e si è conclusa con la pubblicazione dei dati sugli indici dei prezzi nell’area dell’euro. I policymaker della banche centrali hanno fatto buon viso a cattivo gioco durante il loro incontro annuale sulle colline sopra la capitale portoghese, prevedendo un’ulteriore espansione economica nonostante l’incombente carenza di gas, ma nelle conversazioni private i timori di recessione sono stati sempre più dominanti. Quest’anno la crescita ha subito un brusco rallentamento a causa delle ripercussioni della guerra russa in Ucraina, annullando il rimbalzo economico dopo i lockdown, mentre cresce il rischio che un’ulteriore escalation del conflitto possa soffocare quel po’ di ripresa rimasta. Ciò complicherebbe la vita alla Bce, che si sta preparando al primo rialzo dei tassi di interesse in oltre un decennio per frenare l’inflazione, perché l’inasprimento delle politiche in una fase di recessione rischia di esacerbare la crisi.
Aumenti dei tassi sono stati anticipati dalle autorità monetarie degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. “Non mi aspetto una recessione e anzi, penso che ci sia la possibilità di una sorpresa positiva”, ha detto il consigliere Bostjan Vasle alla conferenza annuale di Sintra. “I servizi sono in piena espansione e il mercato del lavoro è solido”. “Solo alcuni degli esempi più visibili: l’affollamento negli aeroporti, nei ristoranti e nelle destinazioni di vacanza in tutta Europa indica resilienza”, ha detto Vasle, responsabile della banca centrale slovena. Il problema è che l’Europa è piagata da un’enorme dipendenza energetica e l’impennata dei prezzi del petrolio rappresenta di fatto un trasferimento di ricchezza pari al 2%-3% del Pil, in gran parte verso la Russia. Hilde C. Bjørnland, professore di economia presso la BI Norwegian Business School, stima che un aumento del 10% del prezzo del petrolio dovuto a tensioni geopolitiche o a limitazioni dell’offerta ridurrà il Pil della zona euro dello 0,5%. “L’effetto è ancora maggiore quando la volatilità dei prezzi del petrolio è elevata, come in questo momento”.
Una lettura dai dati sull’inflazione conferma queste osservazioni al simposio annuale Bce. In effetti, l’aumento dei prezzi al consumo in giugno (8,6% nell’area dell’euro, 8% in Italia) è trainato dai prezzi dell’energia (49,1% in giugno rispetto a 39,1% in maggio nell’area dell’euro, in Italia 48,7% in giugno rispetto a 46,2% in maggio). I dati confermano quanto alcuni economisti sostengono da tempo: mentre negli Stati Uniti (dove il tasso di disoccupazione è il 3,6% della forza lavoro) l’inflazione è causata soprattutto dalla domanda (ossia le forti politiche espansive messe in atto per contrastare la recessione da Covid), in Europa si è alle prese con una forte inflazione da costi, causata essenzialmente dalla guerra sul Vecchio Continente provocata dall’aggressione della Federazione Russia all’Ucraina. Mentre al seminario di Sintra si è udito da parte dei responsabili delle autorità monetaria un piccolo coro a cappella (aumentare i tassi), i dati suggeriscono che la risposta deve essere più modulata perché ciò che può funzionare negli Stati Uniti (per abbattere un’inflazione da domanda senza provocare una recessione) non è affatto detto che abbia effetti positivi in Europa.
Nel nostro continente occorre agire sui costi. Sulla componente più dinamica e più pericolosa – l’energia – si potrà operare solo con una visione di medio periodo dato che (chi più chi meno) abbiamo respinto il nucleare e ci siamo consegnati mani e piedi a forniture dalla Federazione Russa. Possiamo fare poco anche in materia di costo del lavoro in quanto mediamente il nostro è, al netto di oneri fiscali e sociali, tra i più bassi della media dei Paesi dell’Unione europea a reddito medio alto, e la riduzione del cuneo fiscale provocherebbe un aumento della spesa pubblica, non certo augurabile in una fase d’inflazione.
Come già scritto su questa testata, sotto il profilo della finanza pubblica, occorre smettere di fare differenze tra “debito buono” e “debito cattivo”. Quando si è arrivati a uno stock di debito pari al 150% del Pil, qualsiasi incremento addizionale è “cattivo”. Tanto più che non ci sono più i paracaduti degli ultimi due anni e mezzo. Ciò significa non solo non finanziare a debito altre spese, soprattutto se di parte corrente, ma anche una più decisa lotta all’evasione (a cui può essere utile l’aggiornamento del catasto). E soprattutto una seria revisione della spesa (iniziando da una seria analisi costi benefici del cosiddetto Reddito di cittadinanza) e delle tax expenditures (in merito alle quali una commissione tecnica presso il ministero dell’Economia e delle Finanze formula da anni proposte a cui non viene dato riscontro).
Il risultato sarebbe un “programma d’azione” per il Governo che verrà formato dopo le prossime elezioni. Per stimolare produttività e crescita aggiornare sin da ora la legge annuale sulla concorrenza per ridurre e, se possibile, eliminare quei comparti protetti che abbassano tutta la produttività del sistema Italia.
Ciò richiede un Governo coeso e con unità di propositi e obiettivi a medio termine. Le vere e proprie risse tra forze politiche, non solo tra loro in prospettiva delle elezioni del 2023 ma anche all’interno di singoli partiti, movimenti e leghe, non induce a sperare bene.
Non sono benauaguranti neanche molto le voci che invocano un nuovo “patto sociale” tra Governo, associazioni datoriali e sindacati. Come illustrato su questa testata, i “patti” possono essere classificati in due vaste categorie: quelli difensivi – diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato) – e quelli aggressivi – diretti, invece, a facilitare l’adattamento di un’economia e di una società a un contesto in rapida evoluzione e a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 e il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 e il Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda. Il precursore dei patti aggressivi è l’olandese “accordo di Wassenaar” del 1982 (dal nome della cittadina dove venne siglato) in cui le parti sociali e la coalizione in cui la sinistra e la destra erano al Governo e il centro all’opposizione rivoluzionarono normativa sul lavoro, pensioni e welfare in generale di fronte alla constatazione che per quadrare i conti operando unicamente sull’età legale della pensione di vecchiaia (a ragione della più lunga aspettativa di vita attesa) e con modifiche negli altri capitoli la si sarebbe dovuta portare a 81 anni.
Non è chiaro le voci che si levano a favore di un nuovo “patto” a quale tipologia si riferiscano. Per un patto aggressivo, quello più consono, basterebbe attuare, senza annacquarle, le riforme chieste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e porre l’accento sulla diversificazione delle fonti di energia. Ciò sosterrebbe l’economia, e ridurrebbe il rischio di recessione, mentre la politica monetaria tornerebbe, necessariamente, a essere restrittiva.
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