La crisi politica italiana entra oggi – finalmente – nell’alveo proprio della democrazia costituzionale: il confronto parlamentare. Le comunicazioni del premier Giuseppe Conte andranno ascoltate con totale attenzione: dalla sua narrazione istituzionale di quanto sta accadendo in Italia non si potrà in alcun modo prescindere. I verbali d’aula registreranno di seguito gli interventi dei leader delle diverse forze di maggioranza e d’opposizione: e quello che si dice in Parlamento è l’unica cosa che conta. Niente più tweet, niente interviste, niente editoriali, niente indiscrezioni e retroscena.
Una discussione autentica e alta sullo “stato del Paese” e quindi decisioni politicamente conseguenti entro binari costituzionali s’impongono come atti dovuti da parte di tutti i parlamentari verso gli italiani che li hanno eletti. La crisi del Paese è reale: grave e seria, non quella del cinismo capitolino e proverbiale di Ennio Flaiano.
Al centro della crisi resta principalmente – se non esclusivamente – un Pil nazionale che ancora non ha recuperato i livelli pre-crisi: ed è ormai trascorso un decennio. Quale governo può accelerare la ripresa, può aiutare imprenditori vecchi e nuovi a produrre Pil, export, innovazione e soprattutto occupazione?
Il leader della Lega, Matteo Salvini – vicepremier e ministro dell’Interno nel governo in carica – da un paio di settimane sta ponendo questa questione. L’ha fatto all’indomani di una sessione parlamentare nella quale M5s – partner di maggioranza nella coalizione – ha confermato il suo orientamento negativo al progetto Tav. Salvini ha chiesto una verifica ampia sulla governabilità – senza escludere il voto anticipato – dopo che la riforma dell’autonomia richiesta per referendum da Regioni-traino come Lombardia e Veneto rimane congelata. Dopo più di un anno di esecutivo gialloverde resta tenace l’opposizione di M5s che ha al Sud la sua “constituency”, il suo collegio elettorale.
Il leader della Lega, infine, ha aperto la crisi quando è diventato chiaro che la manovra finanziaria 2020 difficilmente potrà includere le politiche di stimolo fiscale che Salvini propone come principale farmaco anti-recessione. D’altronde la responsabilità della politica economica è da 15 mesi formalmente affidata al leader M5s, Luigi di Maio: vicepremier allo “sviluppo” e al “lavoro”. Sono usciti dal suo super-ministero il “decreto dignità”, il reddito di cittadinanza – perno della manovra 2019, duramente contestata dalla Ue – e gran parte dell’ultimo “decreto crescita”. è lui che ha protratto la soluzione dei dossier Tav, Ilva, Alitalia; è stato lui a frenare la conferma degli incentivi di “Industria 4.0”.
La posizione pentastellata si è in ogni caso irrigidita dopo il voto per il rinnovo dell’Europarlamento: quando la Lega ha quasi raddoppiato in Italia il suo peso elettorale nazionale nell’arco di un anno, mentre M5s lo ha visto quasi dimezzare. I pentastellati, dal canto loro, hanno deciso di offrire i loro voti a Strasburgo alle due forze politiche tradizionali (popolari e socialdemocratici) uscite pesantemente sconfitte il 26 maggio. Sono giunti da M5s i voti decisivi per il nuovo presidente della Commissione Ue, la tedesca Ursula von der Leyen, ministro della grande coalizione Cdu-Csu-Spd a guida Merkel. È già lei l’interlocutrice del governo italiano, principalmente sul terreno della politica finanziaria, e la nuova leader di Bruxelles ha già ventilato una linea di sostanziale continuità con la linea di rigore perseguita dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, sotto pressante sorveglianza tedesca.
Della “transazione Ursula” ha fatto parte integrante la designazione alla presidenza dell’Europarlamento di David Sassoli, esponente del Pd italiano, che al voto ha solo leggermente recuperato la dura battuta d’arresto registrata nel marzo 2018. Non è’ stato sorprendente, quindi, che una “coalizione Orsola” (in voluta traduzione italiana) sia stata evocata da Romano Prodi: due volte premier per il centrosinistra e lui stesso“past president” della Commissione Ue.
Dopo giorni di schermaglie all’interno del Pd, Prodi ha provato a dare struttura all’ipotesi di maggioranza alternativa di legislatura, coi dem in veste di nuovi “junior partner” del partito guidato da Beppe Grillo. Ma al di là dell’intento strettamente politico di utilizzare i numeri parlamentari del voto 2018 per dar vita a una coalizione Pd-M5s e rimandare all’opposizione la Lega salviniana, nulla o quasi è per ora emerso come risposta programmatica alle questioni poste con urgenza dalla crisi. Un silenzio che appare oggettivamente problematico laddove il Paese è stato governato dal 2011 al 2018 – con ampi test di misure anti-crisi – prima da un tecnocrate Ue come Mario Monti, poi da tre premier Pd (Letta, Renzi, Gentiloni).
Il richiamo insistito di Prodi alla nuova leadership “merkeliana” della commissione Ue può essere segnaletica di una pluralità di indirizzi. Il più ovvio sembra l’attenzione forte ai parametri di Maastricht, anzitutto sul fronte critico del debito: sul quale l’Italia è stata oggetto appena tre mesi fa di una procedura d’infrazione Ue senza precedenti. Un governo italiano nato sotto l’ala di due leader Ppe della Ue – Prodi e von der Leyen – imporrebbe subito al Paese provvedimenti taglia-debito? E quali? Di nuovo solleciterebbe l’Azienda-Paese a forme di austerity “a prescindere” per rimeritare la cittadinanza nell’eurozona? Rispolvererebbe, il “governo Orsola”, l’approccio terapeutico seguito otto anni fa dal governo Monti? Offrendo quali garanzie credibili, questa volta, di effettiva rigenerazione di ripresa?
È vero che anche il ventre tedesco dell’Europa è in subbuglio. I rischi di recessione globale – indotti anche dalla crescente conflittualità commerciale fra Usa e Cina – minacciano il ciclo tedesco, dopo anni di extra-surplus commerciali, peraltro in violazione dei parametri di Maastricht. Industriali e sindacati premono per l’abbandono del dogma costituzionale del bilancio pubblico in pareggio. E ora anche il ministro socialdemocratico della Finanze, Olaf Scholz, successore del falco Wolfgang Schäuble, pare più deciso nel prospettare apertamente politiche di bilancio più flessibili per prevenire una possibile recessione. La cancelliera Merkel – peraltro declinante – sembra per ora voler resistere; non così, invece, la sua erede designata Annegret Kramp-Karrembauer. AKK, segretaria della Cdu e da poche settimane ministro della Difesa (al posto di von der Leyen) si è detta non contraria a una strategia di investimenti pubblici utili a modernizzare l’Azienda-Germania sul terreno dell’eco-sostenibilita. Un piano per la re-infrastrutturazione “verde” sembra naturalmente finalizzato a contrastare politicamente l’onda dei Grünen: molto più minacciosi della destra xenofoba di AfD per la sopravvivenza della “Groko”. Sarebbe tuttavia, assai prevedibilmente, il segnale di una svolta politico-economica per l’intera Ue.
Flessibilità pilotata sulle grandi opere in cambio di prime mosse sostanziali “tagliadebito”? E questo in abbinata col rinnovo degli Accordi di Dublino e dell’operazione Sofia (accoglienza dei migranti concentrata sui porti italiani in cambio di flessibilità sui conti)? è questo il nocciolo duro del programma del “governo Orsola”?
Oggi né Conte, né Salvini, né Di Maio, né il capogruppo del Pd Luigi Zanda (oppure il senatore Renzi…) potranno permettersi di tenere le carte coperte. Né “elezioni subito”, né “qualsiasi cosa pur di cacciare Salvini” potranno essere titoli di un “discorso sullo stato del Paese” degno del Paese.