Enrico Letta ha il compito non facile di far uscire il Pd da uno stato di confusione. Le origini della crisi del partito sono tante e anche lontane, ma è sufficiente considerare quelle più immediate. Con la nascita del governo Draghi si è registrato immediatamente il caos in Pd e M5s. Da un lato c’era la perdita dei posti a cui, dall’altro, si aggiungeva soprattutto una drastica minor visibilità politica. Dopo aver rifiutato un compromesso con Renzi ora si trovano insieme a Lega e Forza Italia che hanno anche ministri più coinvolti di quelli del Pd nel Recovery plan.



Zingaretti ha quindi tentato di essere la golden share del governo costituendo il fronte unico M5s-Pd-Leu con sempre in mente Conte come nuovamente candidato premier. In particolare il Pd ha dato vita all’Intergruppo al Senato e Zingaretti ha proposto Conte come candidato nel collegio lasciato da Padoan e ha quindi iniziato la trattativa per portare i 5 Stelle nella sua giunta regionale. Una serie di “piani B” che si è azzerata nel momento in cui Conte è stato chiamato da Grillo al vertice del M5s diventando un concorrente che portava via al Pd voti e l’aspirazione della leadership politica della coalizione. Zingaretti quando si dimette su Facebook accusando la minoranza interna non dice la verità; il segretario del Pd ha gettato la spugna perché i sondaggi davano il suo partito in caduta libera al 14 per cento, ormai finito in un angolo sia nell’ipotizzata alleanza strategica ed elettorale sia, soprattutto, di fronte al governo Draghi.



Con la strategia di fare con M5s e Leu un “governo ombra”, il risultato è stato che in queste ultime settimane – da Giorgetti a Brunetta – il centro-destra risultava il più leale e attivo partner di Draghi, mentre il Pd di Zingaretti appariva un gruppo di nostalgici di Conte che subivano l’assetto presente sperando di mettergli termine appena possibile.

A questo punto è stato vitale recuperare un ruolo non solo autonomo da Grillo, ma soprattutto di reale e visibile alleato di Draghi. Da qui la candidatura di Enrico Letta. Non a caso è stato Dario Franceschini a lanciarla. Farina del suo sacco? Può darsi. Di certo Zingaretti non ha voluto ammettere che Conte è caduto per le mancanze dimostrate dalla gestione Arcuri nella pandemia e per la confusione fatta sul Recovery plan tra Commissione Colao, Stati Generali e, alla fine, progetti elettoralistici per le prossime amministrative. Il segretario del Pd è sembrato rimanere con Di Maio e D’Alema incatenato alla leadership di Conte.



Ora con Enrico Letta questa alleanza – il cosiddetto “partito cinese” – si dissolve. Il Pd torna a essere un soggetto più autonomo. È una scelta realistica che si basa anche sul rifiuto di incollarsi all’ex premier ora leader dei 5 Stelle. Quanto può infatti durare negli italiani la “nostalgia” di Giuseppe Conte? Oggi abbiamo un premier che non parla a reti unificate e che non costruisce un narcisistico divismo sulla tragedia nazionale.

Di certo l’ascesa di Enrico Letta rafforza il governo Draghi che torna ad avere un’immagine di maggior consenso nazionale. Segna anche il passaggio della leadership del partito da un ex Pci a un ex Dc. Il post-comunismo – di Bersani e Zingaretti – passando dal gramscian-togliattiano “Partito-Principe” a “Ditta” ha perduto una identità con anticorpi e si è consumato in alleanze che sono diventate avventure di potere. Governando con i 5 Stelle il Pd ha introitato posizioni di destra accettando anche quanto aveva avversato: dal taglio della prescrizione al taglio dei parlamentari alla politica economica dei bonus. In cambio di cosa? È così che nel partito ci si è arresi alla “egemonia” ex Dc.

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